Appunti di lettura: “Perversione” di Yuri Andrukhovych

Radiografia: immagine diagnostica che si ottiene interponendo la struttura da esaminare tra un tubo radiogeno e un materiale sensibile alle radiazioni.
Una bella sensazione. Che bella sensazione!
Vediamo:
qualche biglietto del treno trovandoli eccessivamente costosi;
le ossa di un pollo arrosto mangiato da una famiglia che discute distrattamente di un futuro marito con una bella macchina;
episodi in .mkv di una guerra immaginaria, Marte colonizzata in rivolta contro la Terra sua padrona, enormi robot guerrieri e giovanissimi eroi che muoiono di notte;
una busta di plastica strappata dall’eccessivo peso dei rifiuti in vetro e il rumore angosciante di bottiglie e barattoli di fagioli cannellini infranti sul pianerottolo del secondo piano;  
provocazioni a sfondo religioso;
quattro fogli di carta da scannerizzare e inviare alla commercialista entro giovedì che era ieri;
pile AAA destinate a una radio portatile;
una lettera in piombo che ci ricorda di specchiare;
il pensiero che anche domani sarò. Che poi è già troppo.

Antonio Vangone

Appunti di lettura: “L’espropriazione” di Caro Gervasi

Non esiste un grado zero, “normale”, dell’esistenza. Ogni stato è uno stato alterato.

Le persone, in primo luogo, le relazioni poi, sono delle droghe. Non importa frequentare le sostanze che il nostro ininterrotto scambio globale ci fa trovare a buon mercato. Le persone stesse hanno effetti di alterazione, sono stupefacenti.

L’io per primoè una droga il cui effetto principale è costringere il pensiero nel corpo e restringerne il campo alle delimitazioni fisiologiche che ne derivano. L’io strozza il processo nel suo iniziare, nel suo accadere.
Carla, l’espropriante, è la cura al tossico, è il pharmakon del pharmakon, che fa fluttuare il pensiero in spazi inesplorati, di nessuno, dove nessuno ha piantato bandiere, delimitato confini.

Ma il pensiero di chi? È quel genitivo che Carla fa stridere.
Chi siamo? Quanti siamo?, e quanti è “chi”? Suono orizzontale, esterno, diffuso.
Un gioco da tavolo la cui plancia cambia continuamente, senza essere di.

Goethe: “Ogni esistente è un analogon di tutto l’esistente; perciò quello che esiste ci appare sempre al tempo stesso isolato e intrecciato”.

Carla è algida, solida, granitica. È l’unica vera certezza dell’esistere: che non ci sono fissità, che tutto è nello scorrere. Non è la tessitrice, ma colei che ci stacca dal fitto dell’intreccio, prelevandoci per un momento, per poi subito riadagiarci in un altro punto della trama. Ma quel momento è il momento della visione dall’alto, d’insieme, del colpo d’occhio, mai risolutivo, risolto, sul sistema. È il momento sovrano, liberatorio, della disappropriazione. 

Carlo Sini: “La vita è nella strozzatura dei corpi”.
Siamo gettati dentro l’esistenza in un modo solo: versati in un imbuto. La parte cosciente si svolge solo nella strozzatura del cilindro, che limita il nostro campo. Abbattere questa strozzatura, uscire dall’imbuto, essere chiunque-dovunque, dove spazio e tempo, io e tu, sono un grande campo da gioco. Accogliere tutte le incompatibilità strutturali in potenza. Tutti, prima dell’imbuto, siamo tutti. Individuazione indeterminata.
Un processo complesso (Gilbert Simondon), dove confini e contorni smarginano, non stanno fermi.
Carla è quell’oltre che rompe l’imbuto, che mette in comunicazione tutti i liquidi.
Un cocktail di droghe.

Nagarjuna: “Le cose sono solo relazioni”.
Le cose sono vuote, non esistono. Acquisiscono spessore solo a partire dal loro rapporto con lo spazio. E Carla fa, anche del tempo, una dimensione spaziale. Scioglie i nodi.
Carla è l’entanglement. Affratellamento, intreccio, correlazione. Oltre le parentele, oltre le prossimità spazio-temporali.

In Lak’ech Ala k’in.
Famoso saluto del popolo Maya, che suona: “io sono te e tu sei me”.
Carla ci costringe a salutare l’esistente, tutto. Non si può più parlare di contorni. È la smarginatura. È il saluto del re, appena destituito, al suo popolo tutto. Non si può più parlare in termini di appropriazione. Finalmente, nulla è di nessuno.

Francesco Scapecchi

Appunti di lettura: “Delle osservazioni” di Marco Giovenale

Leggendo i testi di Marco Giovenale raccolti in Delle osservazioni, per Blonk editore, mi viene da pensare che forse la suddivisione tra poesia lirica e poesia di ricerca oggi vada decostruita e poi riarticolata, insieme agli altri dualismi di hegeliana memoria. Accanto alla bella scrittura di Giovenale, esistono infatti innumerevoli declinazioni di scrittura mediocre – se non decisamente ricopiata, in tutti i contesti. Anche in quello della cosiddetta ricerca.

Il fenomeno sta dilagando a dismisura, crescendo l’interesse per la poesia da parte delle cosiddette scuole, dei concorsi letterari, delle rassegne o dei festival. Non è il denaro che si cerca, forse, ma l’esposizione attraverso i media. Il titolo di poeta.

Marco Giovenale emerge in questo panorama per una autentica ispirazione, sia che realizzi scritture asemiche, prose non assertive oppure poesia post-lirica, come è talvolta chiamata la sua produzione a mio parere più innovativa, perché spinta a forza fin nel cuore della lirica stessa.

In Delle osservazioni il linguaggio non è al servizio dell’autore, né al contrario potrebbe travolgerlo, ma sembra essere invece tutt’uno con l’atto stesso dell’osservare. Vi è grande attenzione alla decostruzione della sintassi e del ritmo, senza per questo perdere in coerenza e in concentrazione dello sguardo, in profondità o in bellezza della visione. In alcuni testi del volumetto, Giovenale riesce a essere osservatore della natura-cultura che lo circonda, e allo stesso tempo osservato, in quanto natura egli stesso.

Si è attraversati, mediante la rifrazione del suo sguardo, accudita da una sorta di velo di pudore o di orrore per l’esposto, dalla tenerezza del ritorno, nel percorrere o ripercorrere luoghi, volti e dettagli che non divengono mai parte di un contesto, di uno sfondo del pensiero, mai una “trama” o un “tema” della composizione, ma soggetti dotati di una vita propria, che siano umani o non umani. Soggetti di incontri, di ricordi-sogni vissuti dal o con l’autore.

Difficile la scelta dei testi, perché ciascuno ha il suo posto solo se posto accanto agli altri.

*

Adesso poi che è cenere ne cercano
il cranio tutto storie nella brava
anamorfosi a filo della cornice
e domandano che vuole dire l’arco
nelle acqueforti fatte, e che cosa il
cerchio,
Il triangolo scaleno, il colore
indaco del manto della logica
mariana, e rubrica rubino, e pergamena.
Vogliono la tavola, le legature,
i binari, il cifrario del viaggio. Però è la
polvere
il motore, e insieme dove iniziano le robe
vive, sanno

e ma dopo

________

il cameriere coi denti sul guscio
dice la vita è fatta con la morte
bella scoperta – ai margini delle
fosse o dei fossili o portando
in tavola qualcosa che mi piace

Lidia Popolano

Appunti di lettura: “Autobiografia di tutti” di Gertrude Stein

Ci piace citare gli autori più chiacchierati e originali. Ci piace sapere conversare sulle scritture considerate all’avanguardia, ma difficilmente troverete qualcuno che dichiari di essersi appropriato letterariamente della scrittura di Gertrude Stein. Il genio è troppo ribelle, anche a distanza di un secolo. Qui siamo nel ’37 e Gertrude, insieme alla sua amata Alice Toklas, compie un leggendario viaggio, per una serie di conferenze, negli Stati Uniti dov’è nata, e proprio alla vigilia della seconda guerra.

Nel ritorno in luoghi già conosciuti e amati, nel trascorrere dei giorni, o nel passare veloci in zone mai viste prima, Stein lascia impressioni di viaggio, racconti quotidiani, oggetti di discussione fremente, pensieri originali o dichiarazioni di poetica così come sgorgano dalla mente.

L’ambizione di questo testo, al di là delle definizioni di memoir, diario di viaggio, autobiografia o racconto, è quindi quella di essere il primo in cui Stein riesce a scrivere in “diretta”. Sono luoghi, persone, eventi ed emozioni di cui prende coscienza, e che subito riporta sulla pagina, con il loro adorabile disordine – che non si prenda per confusione – e con lo statuto di pensiero ancora da elaborare e rifinire. Come contemporaneità della scrittura e della percezione. La preziosità del volume edito da Nottetempo nel 2017 è data anche dal fatto che si tratta della storica traduzione di Fernanda Pivano, rimasta nel cassetto per decenni e capace di interpretarne tutta la carica di immediatezza. La ritroviamo fresca, come appena scritta. Un piccolo capolavoro, se amate le scritture di ricerca e le traduzioni raffinate.

Lidia Popolano

Appunti di lettura: “La casa sul cartello” di María José Ferrada

Vivrei volentieri, almeno per un po’, in una roulotte, o in un camper. Quando ero piccola facevamo dei viaggi così con la mia famiglia, si dormiva insieme nella roulotte, di giorno papà guidava e la sera sistemavamo la tavola, le sedie e le sdraio davanti a quella casa con le ruote.

Vivrei anche a Parigi, anzi no, ci ho provato, Parigi tienitela tu.

Vivrei a Lisbona, sì non ho dubbi, a Dublino, a Torino, a Bruges per i suoi tetti, a Lecce, a Toulouse che mi ricorda Bologna, andrei sulle isole di Faroe, prima di tutto per fare amicizia con le capre ma anche per il silenzio, ma forse quello lo immagino solo io. Ramón va a vivere sul cartello della pubblicità della Coca Cola per i rumori – qualcuno deve aver girato la manopola perché ogni cosa si sente appena – e per quella vista che forse fa stare zitti tutti, senza nessuna esclusione.

 “Lo stesso Ramón, che fino a un paio di settimane prima era soltanto il marito di mia zia, da quando era salito nella casa sul cartello si era trasformato in una figura a metà tra un amico, un uccello e un maestro. Un incrocio che non avevo mai visto prima e che non avrei rivisto mai più.”

Credo che solo in quella casa, su quel cartello, poteva diventare un uccello, un amico, un maestro. Solo lì poteva centellinare le parole, guardare tutto, accogliere, accettare il più antipatico dei suoni che una volta arrivato fin lassù sarebbe diventato lontano e sopportabile, come una cosa brutta che diventa ricordo e che poi, piano piano, non fa quasi più male. Altro che i tetti di Bruges, con tutto il rispetto per i tetti di Bruges.

Francesca Chiappalone

Appunti di lettura: “L’autunno a Pechino” di Boris Vian

Per la riedizione di Autunno a Pechino

Signora Presidente (del Consiglio),

Vi scrivo una lettera che leggerete, forse, se avrete il tempo.
Consapevole dell’impertinenza di questo “se”, andrò dritta al punto: un caro amico mi ha recentemente informata che Autunno a Pechino di Boris Vian non è più disponibile in Italia. Essendo una persona decisamente ottimista, prima ho pensato che si trattasse di uno scherzo, ma a quanto pare la verità a volte è crudele, come potrete verificare cliccando sul seguente link: https://www.ibs.it/autunno-a-pechino-libro-boris-vian/e/9788838914744

Non ignoro le attuali differenze tra i nostri due paesi, e temo che il mio status di cittadina francese possa squalificare la mia richiesta. Tuttavia, queste turbolenze temporanee non devono distrarvi dalla missione che vi è stata assegnata: lavorare per il bene del vostro popolo. Come non difendere la reintroduzione sul mercato di un libro che rimette a posto le idee, su temi così importanti per l’individuo e la società come il lavoro, l’assetto territoriale, l’archeologia, l’amore e la sessualità (senza ignorare la questione dell’omosessualità, in particolare nel suo rapporto con l’istituzione religiosa), l’aeronautica, i trasporti, l’energia, e di conseguenza la famiglia, l’etica, l’ecologia, l’economia… solo per citarne alcuni. (Si noti che ho omesso il punto interrogativo, perché la domanda non si pone).
Probabilmente sapete già meglio di me che l’opera di Boris Vian (Boris, se mi senti adesso che rileggo questo ad alta voce, tappati le orecchie) è di pubblica utilità, ma se avete ancora dei dubbi, non posso che consigliarvi di ascoltare una o due delle sue canzoni, che avrebbero dovuto renderlo un grande artista popolare. Potete trovare ad esempio su Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=yFdYZQmQtcs, https://www.youtube.com/watch?v=5qXkV1e6yZY oppure: https://www.youtube.com/watch?v=gjndTXyk3mw che ovviamente ha scritto in altri tempi, con problemi diversi dai nostri. Ma comunque…

Rosine Inspektor

Appunti di lettura: “Un male purissimo” di Gennaro Marco Duello

Il supersantos è stato “amico fedele di ogni stagione dal 1995 – che ero abbastanza grande da dare forza al calcio e indirizzare la sfera verso una porta immaginaria – fino al 2009 – che dopo una rissa per l’ennesimo gol no gol non avevo più voglia di tutto quell’arancione a strisce nere”. Chiuse queste pagine, per le quali mi aspettavo un sapore partenopeo e invece ho addentato porzioni di cucina francese e continentale, mi è rimasta incastrata tra i denti l’immagine del pallone. Di un pallone che rotola e che può decidere non soltanto le sorti di una partita, ma anche quelle di una vita. O due, o tre, o quattro, o cinque. E potrei continuare, ma ormai dovrebbe essere chiaro.
Accanto al superstantos c’era una pistola e nessuno di noi aveva avvertito il bisogno, o forse dovrei dire che era paura e mancanza di coraggio, di controllare se fosse vera oppure no. Pure il supersantos, se uno ci pensa bene, non è propriamente un vero pallone da calcio eppure soltanto noi avremmo giocato, quante?, un migliaio di partite. Il supersantos non è un vero pallone, ma va bene per segnare, esultare, prendersi a schiaffi. Quello il pallone poteva spaccare pure i vetri delle macchine. E se la verità è questa, allora quell’altro poteva sparare. Quello poteva sparare e come minimo mandarmi al Pronto Soccorso. E poi? Come sarebbe andata avanti la storia? Non ci voglio neanche pensare, però poi ci ho dovuto pensare. Queste pagine, non avendo il sapore gomorroide, anzi forse proprio per questo, mi hanno fatto rivedere i mostri.
Un presente di vite moderne e frenetiche, ingoiate in una città che è bella e talmente bella da essere senza scrupoli. Alle volte persino capovolta. Sotto sopra. Sottengoppe. Come ti senti quando ripensi a quello che è stato o poteva essere, a quello che non è stato o potrebbe essere. Perché non è vero che dalla lordura ti puoi ripulire, qualcosa ti resta per sempre incollato sotto pelle e puoi solo sperare, con tutto te stesso, che non esca fuori, che non si faccia vedere. Che nessuno se ne accorga. E tirare avanti un altro giorno fino all’inevitabile.

Francesco Spiedo

Appunti di lettura: “Chisciotte” di Antonio Moresco

Dulcinea ha dato fuoco al suo tre vani
E si è lanciata poi dalla finestra
L’hanno portata in ortopedia
L’hanno ingessata fin sopra la testa

Don Chisciotte col suo cappello a piume
Sgattaiola in pigiama dalla stanza
Nella notte perlustra l’ospedale
Assieme al suo infermiere Sancio Panza

Quando trova il suo amore dentro il gesso
Che gli parla con la bocca che non ha
La attraversa per rendersi a un consesso
In via della Povertà

Via della Povertà, strofa apocrifa

L’autore vuole incarnare Chisciotte in un film scritto da lui stesso e ancora da girare. Ne pubblica la sceneggiatura-romanzo.
Precisione rettilinea dell’erranza di Moresco che, come tutti i grandi malati innamorati di Chisciotte, conosce a menadito, anzi, come l’avemaria le regole che mettono in moto l’azione chisciottesca (e sancesca).
Chisciotte non si batte contro i mulini a vento scambiandoli per giganti, come credono tutti quelli che non hanno letto il romanzo. Chisciotte prende il suo testimone, il suo campione, e gli mostra cosa c’è dietro le cose che gli infermieri, i dottori, le monache (i baccellieri, i barbieri, i curati, le duchesse…) prendono semplicemente per le cose. Chisciotte vede la cosa che tutti vediamo e vi si scaglia contro come un bolide tentando di mostrarci la cosa che la cosa nasconde.
Un primario con il camice a strascico che fa l’altalena nel suo studio gli affida un infermiere personale: un giovane con un tappetino di capelli in testa, mille piercing e diversi tatuaggi stupidi (un cuore, un cosciotto di pollo, un piatto di pasta). Si chiama Sancio.
La convivenza tra i due non è scontata
Sancio come noi non vede subito. E non sa dire: scambia fiaschi per fischi, lucciole per taverne. Sarà per quegli stupidi tatuaggi di cui è tanto fiero, chissà. Ma allenandosi comincia a intravedere, a odorare, a sentire l’ombra della cosa. E ancor prima di avercela chiara, entra in azione, generoso, al fianco del suo signore, per proteggerlo, per lasciarlo fare.
Da sempre soli-insieme, la coppia servo-padrone si separa a volte. Così nel reparto ortopedico del dottor Montesinos, solo il Moresco Chisciotte può entrare per vagare tra le forme ingessate e fluttuanti, appese a cavi d’acciaio, come figure baconiane ai piedi di una crocefissione, per giungere alla regina dei suoi itinerari, anche essa appesa con i quattro arti spalancati, stigmatizzata nell’estrema posizione dell’accoglienza. È completamente avvolta nel gesso, Dulcinea, solo gli occhi e il sesso emergono da quella specie di uovo bianco.
Il penitente si reca più volte in pellegrinaggio dalla santa. Nel percorso incontra altri internati come lui, spesso deformi, e li riconosce ossequiosamente dietro la loro zavorra mortale: sono gli immortali scrittori e le eterne scrittrici che compongono il canone moreschiano della letteratura mondiale. Ciò che è demodé non sono più i romanzi cavallereschi ma la letteratura tout court, rinchiusa nella bianca prigione psichiatrica dell’ospedale Miguel de Cervantes Saavedra.
È attraverso la porta-specchio-vagina di Dulcinea che il consesso di banditi dal mondo passerà per ritrovarsi, come nel ventre di una balena, nei sotterranei dell’ospedale, risvolto transdulcineico del mondo; è questo il luogo, o cieli, che Moresco sceglie ed elegge per cantare la felice sventura di questi celebri reietti, che in Chisciotte vedono e celebrano il loro paladino, colui che li potrà liberare dalla bianca prigione per permettere loro di portare ancora “lacerazione e passaggio nel mondo”. Dopo la consacrazione il corpo di Chisciotte viene spezzato da un pestaggio mortale dei bestiali infermieri, tentativo estremo di mettere fine alla sua erranza. Ma la morte è la tappa necessaria alla resurrezione, che avviene grazie a Dulcinea e complice Sancio. Parato all’antica spagnola, l’eroe prende le sue cicatrici e, montando sul cavallo che dall’inizio era legato fuori dall’ospedale, accompagnato dal suo campione sul mitologico ciuco, spezza il cerchio della prigionia psichiatrica e attraversa una città semi addormentata. Il corteo che lo segue, quello dei letterati lacerati, a poco a poco si ingrandisce, mentre in una  silenziosa apoteosi il Moresco Hidalgo conduce i suoi su una linea idealmente infinita: retta, dritta, diritta, drizzata, giusta.

Gunther Maria Carrasco

Appunti di lettura: “Uno su infinito” di Cristò

La TV tutto digerisce, questo lo sappiamo. Anche la rete. Chiarisco: la TV digerisce anche la rete, che si crede più ampia, più capillare, capace di quelle torsioni che la rigidità del piccolo schermo non sa eseguire e a cui supplisce con un’inaudita capacità digestiva, come quei tosti mulini divora metalli che fanno fazzoletto di ogni ferraglia che viene loro offerta: tubi innocenti, carriole, bombole del gas. La TV è grossolana e potente, bulldozer del reale. Uno su infinito non è una scommessa: solo triturata e risputata dalla TV come carne macinata può essere definita tale. La TV catalizza il contagio di quest’idea irreale eppure così intrigante. “Hai sentito cos’hanno detto in TV?” “Io non ci credo ma cosa ho da perdere?”.
La TV è antidemocratica, produce enunciati autoritari che piovono dall’alto sullo spettatore suddito passivo della sua monarchia assoluta. Non stupisce quindi l’obbedienza al suo dogma, il contagio catodico. Ancor meno se abbinato alla promessa di una felicità capitalistica in denaro contante, sebbene il jackpot diventi presto contabile solo con misure paperoniche, quindi irreale, utopico.
La TV è il mezzo del potere maschile che sfida, sfrutta e organizza la potenza del femminile, in contatto diretto con l’ineffabile – la donna che partorisce la sfera[1]. E così intriga il Marinetti (che cognome!). Vuole cambiare il mondo per onorare la memoria del padre (ancora un uomo), idealista e combattente, traendo dalle mammelle della santa (Sofia) latte pitagorico da trasformare in un piano degno di un Ulisse anticapitalista e patriarcale. Perché lo sa, Bruno, che lui non potrà mai partorirla la sfera, e allora si lancia nell’impresa. Avventuriero o imprenditore? Profeta o cacciatore?
Negli anni ottanta (o novanta? O settanta?), quando lessi Cent’anni di solitudine, mi feci un albero genealogico dei Buendía sul retro di un biglietto della corriera da 800 lire. Qui, con tutti questi nomi dell’eterna provincia, avrei preso appunti simili, avendo ancora quel supporto elegiaco.
E in fondo, mi dico, è forse questo che mi ammal(i)a di questo racconto orale: Uno su infinito è quell’eterna provincia italiana in cui già rodeva il brelusconismo; ricorda i colori della fotografia di certi documentari del passato; la qualità dell’immagine del tubo catodico di quei televisori con le antenne sopra lo schermo, posate su mobili di legno con centrini bianchi o su tavole con tovaglie di plastica stampate fantasia, di fronte ai pasti di famiglie in muta cattività; sa di corriere polverose che scalano salite di paesini appenninici; o di treni regionali con compartimenti in velluto rognoso; di caramelle pip comprate all’unità; di schedine del totocalcio in cui si doveva fare tredici, da giocare in bar pieni di fumo con schiocchi di palle da biliardo a segnare il tempo come campane depravate.
Mi ricorda il mondo com’era quando avevo otto anni[2]. Poi fu il grande contagio.


[1]    Giorgio Manganelli, Centuria, “Settantacinque”, Adelphi, Milano, 1993

[2]    Cristò, La carne, Neo, Castel di Sangro, 2020

Gunther Maria Carrasco

Appunti di lettura: “Stanno smontando il mare” di Piergiorgio Paterlini

In agosto le giornate, dopo essersi allungate a dismisura, sfilacciate in un tiro alla fune senza fretta, fatto di pennichelle, aperitivi, cene, musica e frescura che tarda ad arrivare, improvvisamente si accorciano. Il sole tramonta in anticipo, lo vedi inarcarsi più in fretta, come se non vedesse l’ora di nascondersi dietro l’orizzonte. Il tempo diminuisce e così la luce. Una luce piena che si dimezza, poi si annulla e si scopre un buio oltre il buio, di cieli senza stelle e riflessi invisibili. La più totale oscurità. Il precipitare della luce si ritrova in 22 racconti che sembrano un calendario estivo, un promemoria giornaliero, un viaggiare progressivo verso la notte: il buio mangia ogni cosa e con sé trattiene l’eccitazione estiva e la consapevolezza, più o meno risentita, di un tempo che è destinato a finire. Ho sentito la luce spegnersi. Smarrimento da fine della festa, speranza da primo bicchiere, delusioni all’alba, paure e bagni di mezzanotte. Finché persino nel buio non si possano iniziare a distinguere i confini, i profili, facce di cose che volevamo fare, che possiamo ancora fare. Ogni testo ha un odore. Qualcosa che entrando nel naso finisce per solleticare collegamenti inaspettati, accende visioni e costruisce ponti lunghi centinaia di ricordi: così appare l’immagine, netta e definita, un nome che torna senza bisogno di presentarsi. L’odore, in queste pagine, è quello della franchezza. Una sorta di leggero disincanto e amore per la verità, in senso più ampio. Vite che si vivono nel loro tempo, senza aspettarsi nessun miracolo né bramare alcuna vendetta. Del tipo: ecco a voi il mondo, vorrei raccontarvi dell’altro, ma questo è. Ed è per me fondamentale nella scrittura, mi sembra indispensabile, una chiave che apre e realizza le storie. E nella lettura diventa un ago, sottile al limite dell’invisibile, che si insinua sotto la pelle e fa male, malissimo. Sgorga un’unica goccia di sangue, rosso e limpido, pronta a confondersi nel mare e in quelle onde estive che, con masochistica abnegazione, continuano ad andare e venire, andare e venire, andare e venire. Poco importa che in cielo cambi la luce o che addirittura scompaia.

Francesco Spiedo