Appunti di lettura: “Stanno smontando il mare” di Piergiorgio Paterlini

In agosto le giornate, dopo essersi allungate a dismisura, sfilacciate in un tiro alla fune senza fretta, fatto di pennichelle, aperitivi, cene, musica e frescura che tarda ad arrivare, improvvisamente si accorciano. Il sole tramonta in anticipo, lo vedi inarcarsi più in fretta, come se non vedesse l’ora di nascondersi dietro l’orizzonte. Il tempo diminuisce e così la luce. Una luce piena che si dimezza, poi si annulla e si scopre un buio oltre il buio, di cieli senza stelle e riflessi invisibili. La più totale oscurità. Il precipitare della luce si ritrova in 22 racconti che sembrano un calendario estivo, un promemoria giornaliero, un viaggiare progressivo verso la notte: il buio mangia ogni cosa e con sé trattiene l’eccitazione estiva e la consapevolezza, più o meno risentita, di un tempo che è destinato a finire. Ho sentito la luce spegnersi. Smarrimento da fine della festa, speranza da primo bicchiere, delusioni all’alba, paure e bagni di mezzanotte. Finché persino nel buio non si possano iniziare a distinguere i confini, i profili, facce di cose che volevamo fare, che possiamo ancora fare. Ogni testo ha un odore. Qualcosa che entrando nel naso finisce per solleticare collegamenti inaspettati, accende visioni e costruisce ponti lunghi centinaia di ricordi: così appare l’immagine, netta e definita, un nome che torna senza bisogno di presentarsi. L’odore, in queste pagine, è quello della franchezza. Una sorta di leggero disincanto e amore per la verità, in senso più ampio. Vite che si vivono nel loro tempo, senza aspettarsi nessun miracolo né bramare alcuna vendetta. Del tipo: ecco a voi il mondo, vorrei raccontarvi dell’altro, ma questo è. Ed è per me fondamentale nella scrittura, mi sembra indispensabile, una chiave che apre e realizza le storie. E nella lettura diventa un ago, sottile al limite dell’invisibile, che si insinua sotto la pelle e fa male, malissimo. Sgorga un’unica goccia di sangue, rosso e limpido, pronta a confondersi nel mare e in quelle onde estive che, con masochistica abnegazione, continuano ad andare e venire, andare e venire, andare e venire. Poco importa che in cielo cambi la luce o che addirittura scompaia.

Francesco Spiedo

Appunti di lettura: “L’età delle madri” di Vittorio Punzo

Ci sono i numeri, il contare, il tempo che passa e se ne porta il segno. C’è l’età che è una questione anagrafica, un ponte e un muro tra i personaggi. Quando si smette di contare allora il tempo non sembra più una discriminante essenziale e l’età, se è stata un problema diventa un pericolo, una colla viscosa. La prima immagine che mi si è incastrata nella mente è un profilo, sfocato e sicuramente impreciso, di una stradina al centro di San Leucio.
Per chi come me ha sempre vissuto in città, o in una casa in mezzo al niente ribelle di un’isola, la percezione della storia e di un tempo vivace che ormai si è addormentato è difficile da ricreare. Sentire le strade lente, gli occhi annoiati, i pazzi e i bislacchi conosciuti per nome, gli angoli abbandonati e le case che possono essere forzate, il fiume, i prati, il bosco, il lago, sono tutte cartoline da comprare in edicola, in coda al tabacchi, in un info point turistico al centro di un immenso centro commerciale. Invece Punzo mi ha portato in una stradina, sfocata e sicuramente imprecisa, della mia inventata adolescenza: era il viaggio di terza media? Seconda? Forse il primo superiore. C’era una ragazza che mi piaceva, ma la madre era qualcosa di inspiegabile. La madre che non ho mai immaginato se non vestita, coperta fino alla punta dei piedi, alle orecchie sottili.
Mi si è stretta la gola al pensiero, soltanto al pensiero. Perché certe cose te le dimentichi, ma sono i dettagli dei tuoi tredici, quattordici, quindici anni a darti le risposte per i ventotto, ventinove, trenta. Anche quando non hai condiviso neppure un bicchiere di vino, ma avresti voluto. Avresti voluto sapere che sarebbe stato possibile fare un paio di tiri di sigaretta e poi sputare il fumo dalla finestra.

Appunto dell’appunto: guardare la biografia di Punzo, soffermarsi sulla data di nascita, ha generato la stessa sensazione che provo, ormai da anni, quando guardo le partite di calcio. I calciatori hanno ormai più o meno la mia età, mentre le giovani promesse sono tremendamente più giovani di me. Ho smesso di essere giovane, sul rettangolo di gioco, almeno da dieci anni. Adesso è lo stesso, anche sui libri. Che significa che Punzo è più giovane di me? Di già? 1998 significa che sono già sei anni e sei anni sono abbastanza per sentirsi distante. Tra la madre e la figlia, sono così terribilmente vicino alla madre. Terribilmente.

Francesco Spiedo

Appunti di lettura: “Addio al pianeta Terra” di Luciana Martini

In questa storia c’è la guerra anche se non viene quasi mai nominata, forse perché ha un nome di battesimo ingombrante, forse perché non ce n’è bisogno.
Luciana Martini è stata bravissima e crudele, ha creato un racconto dominato da un conflitto a cui non serve farsi vedere per suscitare dolore, paura, smarrimento.
Smarrito è anche il primo aggettivo che mi viene in mente pensando al protagonista Teo. Certo, è solo un ragazzino, è insicuro, è spaventato, ma ancor prima di questo è smarrito, ancora prima di lasciare la sua casa tra le montagne e i genitori in quella stazione è smarrito. Nel momento preciso in cui osserva l’angoscia sul volto del padre, una cosa mai vista, un volto che sembra quasi nuovo, ecco che Teo si smarrisce.
Attraverso i suoi occhi seguiamo le persone che fuggono dai paesi, le strade vuote, la ricerca di una via d’uscita e intanto lui cresce scappando, incontra altri ragazzi, i soldati, stringe le palpebre per non far vedere le lacrime, scopre che la disperazione non è proprio un dolore ma piuttosto un’immobilità, senza un tempo determinato e senza alcuna prospettiva. Con lui il presagio della tragedia diventa l’aria che muta quando un temporale si avvicina.
Addio al pianeta terra è un romanzo che mescola qualcosa di molto dolce con un calcio nella pancia. È un romanzo che ci ricorda un po’ di cose che dovrebbero essere (ma non sempre sono) scontate: che la guerra è una schifezza, che crescere fa soffrire in qualsiasi contesto, ancora di più se il mondo è sul punto di finire, che l’amicizia e la fortuna di avere un alleato sono i superpoteri della giovinezza.

Francesca Chiappalone

Appunti di lettura: “Un cuore arido” di Carlo Cassola

Quando leggiamo, spesso, non sempre, ma spesso, stiamo cercando qualcosa che parla di noi.
E quando lo troviamo siamo felici, magari sottolineiamo anche quel determinato passaggio per ricordarcelo, per ritrovarlo più avanti nel tempo o per condividerlo con qualcun altro e dire “Vedi? Qui si parla di me. Questa cosa la penso anche io”.
Figuriamoci quando ci ritroviamo tra le mani un libro che è appartenuto a qualcuno a cui abbiamo voluto bene e quel qualcuno aveva già sottolineato diverse righe.
È quello che mi è successo con Un cuore arido, ritrovato in fondo alla libreria prima di Natale, quando mi era stato impedito categoricamente di acquistare libri per non rovinare possibili regali e ho dovuto scavare nel giacimento casalingo per trovare qualcosa da leggere.
Non avevo mai affrontato niente di Cassola, forse perché pensavo di non ritrovarmici: un autore uomo, attivo nel dopoguerra, tempi e temi così lontani da me…
Però la copertina, con quella brevissima didascalia sotto il titolo (altro che #bookstagram), mi tirava per la giacca. E alla fine, sì, ho giudicato il libro dalla copertina.
E ho fatto bene. Adesso in quel volumetto ingiallito ci sono anche le mie, di sottolineature.

Gelsomina Sampaolo

Appunti di lettura: “Splendi come vita” di Maria Grazia Calandrone

Amore e disamore, solo tre lettere e cambia tutto.
Romanzo e non romanzo, metti un avverbio minuscolo e fa la differenza.
Prosa e poesia. Di solito non si mischiano. Di solito. Poi c’è Dante. Poi c’è Carver. E Maria Grazia Calandrone, che scrive prosa con le parole della poesia e fa dei nomi comuni i nomi propri.
Non conoscevo la storia di Maria Grazia Calandrone, la seguo alla radio; il suo programma mi piace molto, si intitola Qui comincia, ma non conoscevo la sua storia prima di leggere Splendi come vita. C’è una bambina in copertina accanto alla sua mamma. Non si somigliano molto, la bimba è bruna e ha gli occhi un po’ a mandorla, la mamma è bionda. È una fotografia in bianco e nero. Alla fine del libro ce n’è un’altra, stavolta a colori. Saranno dello stesso periodo, anno più anno meno.
In mezzo alle due foto, prosa e poesia mischiate, amore e disamore mischiati. Confini labili, anzi, inesistenti. “Ti accompagno a parole, perché a parole sono nata da te”, scrive la figlia all’inizio. Madri e figlie. Abbandoni e adozioni. Si dice che i figli sono di chi li cresce e non di chi li ha fatti nascere, ma se fosse la madre adottiva a non dare amore? E se fosse la figlia a farle da scudo e cercare l’amore che non c’è? La figlia scava, capisce, difende. Non abbandona. Chi è stato abbandonato, non abbandona mai, fino alla fine. “(…) il danno collaterale del disamore (…) sta nella nostalgia del suo veleno: chi lo riceve vi si affeziona (…) e, crescendo, può talvolta cercare di riempirsene ancora le tasche (…).”

Antonia Anania

Appunti di lettura: “Vita mortale e immortale della bambina di Milano” di Domenico Starnone

Ho sempre avuto un debole per la filologia. All’università tutte le materie che parlavano di parole mi entusiasmavano. Una però non l’ho amata molto. La professoressa di glottologia era fissata con gli esercizi di derivazione: metteva in fila termini di lingue diverse dello stesso significato e arrivava alla loro matrice indoeuropea. Conosceva  tutte le regole per ricavare le discendenze, per cui ricordo ancora la paura di trovare all’esame significanti per i quali diventava difficile stabilire le radici. Con lei non ho mai fatto alcun esercizio di trascrizione fonetica o almeno non lo rammento. La trascrizione fonetica delle parole l’ho scoperta in seguito, dopo l’università, e ho scoperto che è quella delle parole del dialetto la più divertente.
Da piccola non parlavo in dialetto, tutti mi parlavano in italiano, anche mia nonna che con gli altri conversava in dialetto, con me traduceva ogni cosa nella lingua nazionale. Io però la ascoltavo parlare in siciliano e grazie a questa pratica di sguincio, un po’ lo capisco, lo traduco, ne conosco le flessioni. Mia nonna si chiamava Maria Calderone, ma per tutti era Marietta. Non le somigliavo, qualche altra nipote sì, ma non io che ho i tratti di un’altra dominazione dell’isola. Non ricordo storia di me bambina in cui non ci fosse anche lei. Bambina, ragazza, giovane donna. Qualche mese fa ho ritrovato le foto della mia laurea e mi sono soffermata su qualcosa che non avevo notato o forse non ricordavo. Il suo sguardo a volte era misterioso, nascondeva spesso quello che le passava per la mente, non c’era tempo per le emozioni a volte, ma quel giorno della laurea in filologia i suoi occhi erano lucidi.
È importante dare i nomi alle persone e alle cose, anche i numeri, lei conosceva a memoria i numeri di telefono delle persone alle quali teneva. La nonna di Mimì invece sa il nome della bambina di Milano. La nonna di Mimì sa cose e parole che il nipote non sa e vuole sapere.
A volte nei ricordi d’infanzia i nomi sono perduti o mutati, a volte i fatti sono trattenuti in parte o falsati dall’immaginazione. Domenico Starnone da piccolo si chiamava in un altro modo, come me, e come me ha avuto una nonna lampione. Leggendo di Nannì ho rivisto Marietta.

Antonia Anania

Appunti di lettura: “La dorsale. Libro primo. L’anno del ferro” di Maria Gaia Belli

I libri continuano a ricordarmi pezzi di cose, di me, del mondo che a volte cancello.
Li lascio sul fondo delle giornate, coperte dagli impegni, dai bollettini da pagare, dalla spesa da fare tra la fine del turno al lavoro e la fila alle Poste. Credo che siano pezzi importanti, eppure una volta che gli obblighi e le necessità li nascondono dimenticarli diventa semiautomatico.
Per fortuna, dicevo, i libri ce le ricordano queste cose, e sono piccole epifanie, una luce accesa proprio nel momento giusto.
La Dorsale mi sta ricordando l’avventura, la voglia di arrampicarmi tra mura e alberi, quel batticuore che sale quando si fugge da qualcosa, quando veloce come il vento non deve essere solo una similitudine.
La dorsale mi sta ricordando quanto mi piacciono i fantasy e la letteratura fantastica, quel somigliare alla realtà che viviamo senza però esserlo davvero.
Mi sembra che i colori siano sempre più accesi dentro una storia fantastica, ma non datemi retta perché in questo momento sto parlando con una volpe dentro la mia testa.
E poi ci sono i draghi, e La dorsale mi sta ricordando anche quanto vorrei cavalcarne uno, avvicinarmi, guardarlo e riuscire a volare con lui. Ed è importantissimo e frustrante ricordarsi una cosa – ancor più se è un desiderio che puoi avere a cinque come a cinquant’anni – che non potrà mai accadere in questa realtà ma solo dentro di noi e tra queste trecento pagine.

Francesca Chiappalone

Appunti di lettura: “Gli incantevoli scarti. Cento romanzi in cento parole” di Eugenio Baroncelli

Cento romanzi di cento parole: diecimila parole. A me ne rimangono ottantasei con questa. Lo spazio che mi resta per scrivere si accorcia sempre di più, ventisette. Ritengo comunque impossibile non cedere alla tentazione di verificare ogni singola microfinzione e, siccome mi piace contare ogni cosa, ho contato tutte le parole, stupendomi ogni cinquantaquattro volta del fatto che fossero precisamente cento. Ho sbagliato in più occasioni il conteggio, consapevole che, appunto, ad aver sbagliato non fosse stato lo scrittore. Volevo ottantuno scrivere cento parole a proposito del libro anche se, purtroppo, me ne sono rimaste appena tre: novantotto, novantanove, cento.

Niccolò Brunelli

Appunti di lettura: “A cosa servono i gatti” di Paolo Nori, illustrato da Andrea Antinori

Questo libro inizia con una grande Q.
Questa Q sembra un gatto di spalle.
Qual è il font di questa Q non lo so.
Cambria non è. Ma anche la Q di Cambria somiglia a un gatto di spalle.
Tutte le Q, in fondo, sono come dei piccoli gatti, chinati in avanti con la testa nella ciotola. Da dietro non si vedono né la testa né le orecchie.

Ecco tanti gatti in fila a mangiare:
QQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQQ
Come i gatti-avvocati della nonna di Paolo Nori. Non indaghiamo sulla loro sparizione.
Ce ne sono altri chinati a mangiare a pagina 28, 30, 51, 52 e 55.

Vorrei saper disegnare i gatti come fa Antinori, invece li so fare solo con le Q del mio PC ed ecco Quattro Quadrupedi Qualunque Questionare Quasi Quietamente, Quatti Quatti. Questo è un tautogramma, credo.

Arianna Fiore

Appunti di lettura: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo

Avevo ricordi di una pagina del testo, antologizzato nel mio libro di letteratura italiana del Liceo. Mi aveva colpito la lettera in cui il protagonista, nobile liberale e studioso di scienze naturali, descrive se stesso che schiaccia e distrugge la sua preziosa collezione di gasteropodi (chiocciole o lumache per parlar chiaro) dopo aver assistito a una rivolta contadina repressa nel sangue dai Garibaldini nel 1860. Parafrasando, come posso studiare le belle forme della Natura e dedicarmi a conoscenze inutili mentre attorno esseri come me agiscono e soffrono e muoiono? Il tema dell’intellettuale che lavora mentre intorno la storia procede e macina quanto e quanti incontra sulla sua strada mi interessa alquanto: inoltre mi ricordo di aver pensato già allora che scrivere una simile pagina senza cadere nel ridicolo involontario era stata una bella prova di bravura. Per questi motivi ho preso in prestito il libro, visto per caso in uno scaffale della Biblioteca italiana di La Valletta. Il linguaggio spesso barocco e ricco di termini siciliani ha reso la lettura un poco difficoltosa per le prime pagine ma non ha creato seri problemi: forse un certo mio interesse per la chincaglieria (linguistica) ha aiutato. Curiosa la struttura del libro: inizia in terza persona ma è interrotta da numerose lettere, prefazioni di libri (immaginari) di argomento naturalistico e articoli di giornale (in parte d’epoca e in parte opera dello scrittore). Verso la fine numerose pagine sono occupate dai graffiti che i rivoltosi prigionieri hanno tracciato col nerofumo sui muri bianchi di calce della loro prigione (una segreta a forma di spirale, proprio come una chiocciola). La difficoltà di far entrare in maniera non artefatta e tendenziosa la cultura orale in un testo scritto è tema onnipresente nella storiografia coeva al romanzo: i graffiti trascritti con cura dal protagonista vorrebbero essere la traccia (unica rimasta) di quella cultura orale in cui si fa in realtà la storia e che l’intellettuale coglie e registra solo parzialmente. La rivolta non è descritta in modo diretto: il protagonista (arrivato nel piccolo paese di Alcara Li Fusi alla ricerca di chiocciole) fugge al suo inizio e torna quando è già in corso la “pacificazione” armata , vera spannung del libro, che egli stesso osserva rinchiuso in casa di un amico dalla polizia militare. Le pagine del ritorno all’ordine, dove incombono il puzzo dei cadaveri e la claustrofobia, sono uno dei punti alti del libro. Il romanzo risente chiaramente della temperie degli anni settanta ma è invecchiato bene: l’abilità tecnica di questa risposta barocca al Gattopardo è notevole e non rimpiango le ore passate in lettura. Un appunto di natura epistemologica: fra i gusci schiacciati, simbolo di un sapere inutile e lussuoso, giocattolo di un adulto raffinato e intelligente e viziato, c’è anche un esemplare di lumaca acquatica del genere Bulinus. In queste lumache (anello necessario del loro ciclo vitale) si sviluppano i parassiti del genere Schistosoma, che causano la più devastante malattia parassitaria umana dopo la Malaria, la Bilharziosi. Forse la ricerca sul campo del nostro non eroico protagonista, schermo un poco ridicolo contro una realtà di lotta e fame e sangue, non era affatto inutile.

Pierfrancesco Volpi