Appunti di lettura: “Delle osservazioni” di Marco Giovenale

Leggendo i testi di Marco Giovenale raccolti in Delle osservazioni, per Blonk editore, mi viene da pensare che forse la suddivisione tra poesia lirica e poesia di ricerca oggi vada decostruita e poi riarticolata, insieme agli altri dualismi di hegeliana memoria. Accanto alla bella scrittura di Giovenale, esistono infatti innumerevoli declinazioni di scrittura mediocre – se non decisamente ricopiata, in tutti i contesti. Anche in quello della cosiddetta ricerca.

Il fenomeno sta dilagando a dismisura, crescendo l’interesse per la poesia da parte delle cosiddette scuole, dei concorsi letterari, delle rassegne o dei festival. Non è il denaro che si cerca, forse, ma l’esposizione attraverso i media. Il titolo di poeta.

Marco Giovenale emerge in questo panorama per una autentica ispirazione, sia che realizzi scritture asemiche, prose non assertive oppure poesia post-lirica, come è talvolta chiamata la sua produzione a mio parere più innovativa, perché spinta a forza fin nel cuore della lirica stessa.

In Delle osservazioni il linguaggio non è al servizio dell’autore, né al contrario potrebbe travolgerlo, ma sembra essere invece tutt’uno con l’atto stesso dell’osservare. Vi è grande attenzione alla decostruzione della sintassi e del ritmo, senza per questo perdere in coerenza e in concentrazione dello sguardo, in profondità o in bellezza della visione. In alcuni testi del volumetto, Giovenale riesce a essere osservatore della natura-cultura che lo circonda, e allo stesso tempo osservato, in quanto natura egli stesso.

Si è attraversati, mediante la rifrazione del suo sguardo, accudita da una sorta di velo di pudore o di orrore per l’esposto, dalla tenerezza del ritorno, nel percorrere o ripercorrere luoghi, volti e dettagli che non divengono mai parte di un contesto, di uno sfondo del pensiero, mai una “trama” o un “tema” della composizione, ma soggetti dotati di una vita propria, che siano umani o non umani. Soggetti di incontri, di ricordi-sogni vissuti dal o con l’autore.

Difficile la scelta dei testi, perché ciascuno ha il suo posto solo se posto accanto agli altri.

*

Adesso poi che è cenere ne cercano
il cranio tutto storie nella brava
anamorfosi a filo della cornice
e domandano che vuole dire l’arco
nelle acqueforti fatte, e che cosa il
cerchio,
Il triangolo scaleno, il colore
indaco del manto della logica
mariana, e rubrica rubino, e pergamena.
Vogliono la tavola, le legature,
i binari, il cifrario del viaggio. Però è la
polvere
il motore, e insieme dove iniziano le robe
vive, sanno

e ma dopo

________

il cameriere coi denti sul guscio
dice la vita è fatta con la morte
bella scoperta – ai margini delle
fosse o dei fossili o portando
in tavola qualcosa che mi piace

Lidia Popolano

necropoli #2

bello camminare nel cimitero, molte fotografie alle porte, a un certo punto taglio per un sentiero
che va tra tombe in ombra
qui è una asta di ferro posta contro un muro cieco di un edificio piccolo che ha attorno altre cose alberi
e altre costruzioni,
clima freddo
buone foto, rincaso presto viene f e stiamo bene ora, parlo di burroughs stendhal mozart appena
e di atget,
fa un viso imbronciato come chi piange, perché atget era umile e povero
rimango solo, rifletto poco su quanto deve essere duro non fotografare perché non ho soldi per farlo
scende il sole, casa rinfresca
di mattina nell’oscurità anche

Claudio Salvi

tutti ne parlano

questa cosa si diceva fin dall’82 e questo è forse il motivo principale per cui a me è venuta voglia di andare a vedere com’è che è capitata quella cosa che io chiamo la cosa in maniera forse un po’ triste. perché già decidere di chiamarla la cosa significa un po’ schierarsi. lo sapete, decidere di chiamare in un certo modo vuol dire già prendere posizione. va bene, ufficialmente all’epoca le cose si chiamavano cose. oggi però, come dire, non nego. non nego che secondo me è. no, secondo me diciamo nei confronti di quella cosa trovo che non avevano tutti i torti e tutto sommato, quindi, non mi dispiace troppo chiamarla anche oggi la cosa. allora per provare a capire, a raccontare com’è che è avvenuta quella cosa, la cosa principale è sapere che cosa sono le cose, che è più di quello che sapeva la maggioranza a quell’epoca, se hanno ragione quei giornalisti che hanno scritto che la gran parte del popolo pensava che le cose fossero delle isole al largo da qualche parte. e in effetti le cose sono un arcipelago, una stanza grande, e tutte insieme fanno metà della cosa, benché sperdute a grappoli davvero molto a sud e, quando abitate, abitate da una popolazione di origine, che parla, che ha la cittadinanza, i tratti somatici, la falcata, il peso specifico, la prosopopea (a volte proprio la spocchia), gli usi, i costumi e la livrea di quella specifica cosa. e questo stato di cose dura – fatemi fare il calcolo: all’epoca di cui parlo ne era previsto l’anniversario e voi sapete che gli anniversari sono cose serie che creano poi discussioni, fanno pensare, e così via. dunque, in quel tempo in cui appunto la gente pensava che una cosa fosse un’isoletta, l’avvicinarsi di questo anniversario lo faceva pensare in cerca di uno scoop. perché l’altra cosa da sapere per capire quello che vi racconto è che le cose sono un mito popolare, s’insegnano agli scolaretti che un giorno dovranno rispettarle, farle valere e tramandarle. e questa cosa la sanno tutti, l’hanno sentita tutti fin da quando erano bambini. una cosa à la piana, se capite cosa intendo. in caso contrario, se volete, quest’altra cosa ve la spiego un’altra volta

Francesca Perinelli

Sul fuoco

Sul fuoco ci metto le salsicce, ma ci finì anche Giovanna D’Arco. In entrambi i casi solo indirettamente, Dio non voglia.
Il fuoco lambisce, illumina, appassisce. Non dimentichiamo Giordano Bruno e le costine di maiale: dalla loro sorte si apprende che l’arroganza nulla ha a che vedere con il rogo: essere umili non trattiene le fiamme; essere umidi può rivelarsi di maggiore utilità. Essere umidi porta però a fare molto fumo, e il fumo uccide.
Ormai conosciamo le regole del fuoco.
Il fuoco è una reazione chimica. Forse un tempo veniva considerato una magia. Può sembrare. Le cose cadute, lasciate, gettate nel fuoco spariscono, trasformandosi in fumo e calore (energia). Il processo è irreversibile e irripetibile e per questo non è magico, ma risulta comunque molto appassionante. L’eccessiva fascinazione per il fuoco è detta piromania. La piromania è la prova che non è nel fuoco che succedono le cose davvero importanti, ma sul fuoco, tra le particelle eccitate lungo le quali danza la mente del maniaco e si consuma il destino delle salsicce e delle costine e di Giovanna D’Arco e di Giordano Bruno.
IIl cALoRee iirRADiatOo dIlAtaa lL’aRRiiA eEe tUTtoo APPare CcoSìì.

Antonio Vangone

Nella stanza dei libri

Nel corso semideserto di filologia erano sempre insieme (lui lo avrei rincontrato anni dopo, barcollante intorno al palazzo dell’università quasi ne fosse uno spettro ormai istituzionalizzato, tradito solo dalle nuove rughe e dai nuovi capelli bianchi).
Sorridevano senza parlare come due personaggi di un vecchio racconto italiano, due personaggi di un racconto di qualcuno che in un tempo così distante e sforbiciato da far sembrare quella Terra di allora un pianeta parallelo, qualcuno che si era chiamato Moravia o Pontano e che ora cioè allora esisteva solo appena un poco più di loro due, due giovani personaggi italiani che hanno appena finito di essere letti e restano con quella specie di curva di colore con cui restano in noi i personaggi, sulle pareti del cranio, e ne ricordavi prima le parole con cui erano stati fatti, che la carne, e la prima volta che li avevo visti avevo pensato Dove li ho già letti?, silenziosi e sorridenti e sempre vicini. Lei aveva degli occhi grandi, quasi a mandorla come una volpe, e la bocca veneziana di carne corallina sopra un pallore incandescente. Azzurro parallelo.

Guardo nel bagno verde,
e nella sala da pranzo e in tutte le camere,
le lampade non illuminano bene,
ma è nella stanza dei libri
la tartaruga che arranca
la testa vecchissima spaccata in due
occhi luminosissimi
lampade che non illuminano

Lui la amava ma lei corallina pallida veneziana non era ancora uscita del tutto da dietro la tenda bianca, e il corso semideserto di filologia non dava loro che il calore necessario per non incenerirsi. Lei no: e il suo andarsene così, come si dice da un giorno all’altro (le avrei scritto anni dopo, per caso e senza sapere che era lei, senza nemmeno rivederla, solo per sapere qualcosa su due vecchissimi usignoli balbettanti; si era sposata, mi aveva scritto, e io stavo per andare a vivere con una donna che da tempo non amavo più) mi sembrò altrettanto naturale che la silenziosa malattia che subito dopo colpì la gamba destra di lui.
Il morso del ragno lexosceles può provocare una grave necrosi del tessuto, nei casi più gravi danneggiando in modo permanente l’arto morsicato. Il lexosceles è di per sé un ragno piccolo e schivo, ma sui suoi piccoli denti vivono dei germi che devastano la carne, creando filamenti di cancrena che non si rimarginano mai.
Prima il morso diventa come una piccola tonda bruciatura bianca, poi è come se da dentro l’arto morsicato fosse scappata la paglia, l’arto si svuota come quello di uno spaventapasseri abbandonato e sempre più in profondità si tendono fili e lente perle di cancrena; poi il morsicato viene invaso dalla febbre e, nei casi più gravi, da una localizzata paralisi. La stampella su cui lui si appoggiava, girandola orfana davanti al palazzo dell’università, gli occhi che fissavano me e te e tutti senza salutare e anzi implorando Non sono io Non sono io, e più di tutto il sigillo della malinconia sulla bocca, il sorriso ormai sprofondato in gola attraverso cedevoli fili bianchi, mi avevano fatto pensare al ragno (non ricordo se gli ho mai chiesto cosa gli fosse effettivamente successo), e lo immaginavo tornare a casa la sera, dopo che anche l’ultima persona dell’università se n’era andata, e disfare le bende e fissare quella bruciatura di sigaretta nella seta della gamba, buco filamentoso da cui sembrava uscire il fischio di un treno lontano.
Poi anch’io me ne andai dalla città.

Ricordi il giorno che il ragno mortale salì la mia gamba?
Zampetta su e giù la mia schiena.
Mi volto e mi rigiro
cercando di agguantarlo.
Ma non posso toccare tutta la schiena,
e non posso vedere le corte zampe,
e i piccoli denti,
piccoli, ma bianchi.

Lo avrei incrociato di nuovo, sì: molti anni dopo, per caso, nel viale che porta al palazzo dell’università, anch’io diretto lì come uno spettro inconsolabile (ma è il palazzo il vero spettro, è il palazzo che infesta noi con i suoi lamenti e i suoi passi notturni e la sua infelicità). All’inizio, da lontano, all’altezza del monumento di ferro a un patriota, lo scambiai per un piccolo zingaro ubriaco. Non aveva più la stampella.
Barcollava ma era senza stampella, guardava il cielo e sorrideva, senza stampella, i fili bianchi che dopo aver fatto il loro orrendo lavoro lentamente lo lasciavano andare, sorridente piccoli denti quasi come quando lei era ancora lì.
Ma non potevamo avvicinarci più di così.

Angelo Angera

pietra

quel che resta in frammenti e allegati dei validi colossali colombi ormai sposta l’aria con calma compiutissima, ciglia, però il guardiano delle sedie se n’è andato a est. le piume grandi ruote bizantine: volteggiano, è il verbo.

il cortile non è più vietato, è vuoto.

è ineccepito, trapezio blasé, lucetta. l’assenza si impone per quasi un mese.

tra venti minuti riapre la sala scura e beige, dell’obitorio. nell’atrio si va a ritirare un diploma. è una commissione, su via Giulia i diversi davanzali non hanno semicerchi con fiori per la pietra.

sul ponte a Palazzo di Giustizia la fermentazione venta giù e su, in parola con il fiume, dove il ristorante sul barcone contesta il limo bruno a nervi: espone Low Price, calligrafato.

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potrebbero scriverne lettere agli amici, solo che volessero, ne avessero. invece chi è sparito su un fronte, chi è in Provenza e sta bene lì, chi torna stanco dentro buste argentate e in pioggia orizzontale tagliasegni: si oppongono ideogrammi in plastica, gran pena, souvenir delle Papesse.

i tre bambini francesi oltrearco hanno le scie pavesate dei contini, e non si può parlare alla piegatura dell’orizzonte. quello che è andato dopo l’angolo la vista lo sospetta. così l’udito per quel che curva dietro il gomito del tempo.

più che vedere infatti i buoni e cari e barocchi spettri della Navona si sentono.

e così è giusta l’idea di lasciare che le fessure sulla luce pensino a fare a pezzi l’aria contata, su cui si conta. dizione.

la metropoli e la vita dello spirito è un titolo che contiene almeno due errori, forse tre.

in effetti nel pomeriggio si verifica alla fine la pura oscillazione, la prua nuota fra nouveau petit rien e senso di questo stesso. con grandine che tenta a tratti, tasta, porta tentazione, dice, di sé negare.

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chi parla qui è vincolato, come camminando sott’acqua ogni cosa viene in luce e è schermata. pessima psiche, anima in greco. a litri.

notturno. schema su parete improgrammabile, il séguito di una fuga come un rettile sul vetro.

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guardie a perdita d’ombra: guardano a perdita e basta. lui al contrario – seduto sul cubetto di marmo – legge. non va bene. dal corridoio di destra fuori nero affiora la faccia lentissima del vigilatore, con domanda. lo fa alzare, caccia e annota. modulario a quadretti. ha vinto, è fuori. dentro è vuoto e riordinato, svolto. ha questa funzione, lui, come delle esse alte. delle funzioni. o parole note solo a chi non le pronuncia. una vecchia matematica.

la guardia è guardia anche dopo la morte. è l’unico organismo coerente. perfino le pietre, solo potessero, si rovescerebbero in altro

Marco Giovenale

Un prelievo in nughetta

1.

c’hai l’acne e sudi dietro la mascherina. Non so, tipo burro spalmato sulla pelle che luccica, pellecheluccicadiburro. Secondo me tu ieri hai mangiato le zucchine col burro e oggi c’hai l’acne che sudi dietro la mascherina. E la pelle che luccica. E sei il Dirby pellecheluccicadiburro. IO LO SO! Dietro la mascherina.

2.

e oggi mi succhi il sangue colla siringa che io non sto bene e tu ieri hai mangiato le zucchine col burro che c’hai la pelle che luccica. IO LO SO! Dietro la mascherina! Tu oggi succhi il mio sangue che io non sto bene. Colla siringa. E secondo me mi succhi anche le zucchine col burro che tu c’hai l’acne. Dietro la mascherina. E la pelle che luccica. IO LO SO!

3.

che io però NON ho mangiato le zucchine col burro che però c’ho la mamma nel freezer con le zucchine e senza burro. E secondo me anche la mia mamma c’ha la pelle che luccica, non so devo chiedere. E faccio il poeta sperimentale che mi becco la pensione e scrivo nughette. Di sera, quando non c’ho niente da fare. Colla mamma nel freezer. E mentre mi succhi il sangue colla siringa ti vorrei dire una nughetta col burro spalmato sulla pelle che luccica, pellecheluccicadiburro.

4.

e raccontarti la storia della mia vita, di Dilly giaguaro e della Selly tettine spente e della Durby vicina di casa. Che c’ha la mamma nel freezer pure lei. Senza le zucchine però e la pelle che luccica comunque. IO LO SO! Che la sera sul pianerottolo noi ci raccontiamo storie antiche. Quando non c’abbiamo niente da fare. In cerchio la sera NOI ci raccontiamo storie antiche. Sul pianerottolo. Che la Durby vicina di casa ride che ride pure la Selly tettine spente che c’ha la mamma nel freezer pure lei. Che noi non c’abbiamo niente da fare la sera sul pianerottolo. In cerchio. Sotto la luna pellecheluccicadiburro pure lei.

5.

che io oggi non sto bene. LO SO! E tu sei il Dirby pellecheluccicadiburro dietro la mascherina. E sudi e c’hai l’acne. Che ieri hai mangiato le zucchine col burro e c’hai l’acne. E mi succhi il sangue colla siringa e anche le zucchine secondo me. Non so.

Fine

Leonardo Canella

Intrusi

Papà mangia da solo in cucina. Nonna ha detto che l’ha lasciato da solo per appena cinque minuti, l’ha chiamata una vicina che si è fatta un taglio alla mano. Controllo la situazione, scosto appena le tendine per guardare fuori dalla finestra. Tutto tranquillo. Annuso l’aria, non so perché.
Papà continua a mangiare. Non sembra così pericoloso a cinque anni. Ha due occhioni tondi e sorride a bocca spalancata. Io su quel volto ricordo solo fessure.
Mi nota. Ci penso io a te, gli dico, ma lui corruga la fronte. Il sorriso si spegne, tira su col naso. Sembra voglia mettersi a piangere.
Ecco, penso, non riesco mai a fare la cosa giusta. Per lui niente di quello che faccio va mai bene.
Mamma, dice piagnucolando, ma lo dice piano. Io gli faccio segno di stare zitto, potrebbero sentirlo. Che cazzo, penso, una vita a parlar solo con le mani e proprio adesso si deve mettere a usare la bocca?
Sento nonna fuori che parla con la vicina. O signur’, dice, ma l’è mia gnenta. Penso alla sua faccia quando racconta quello che pensa sia successo. Papà invece non ne parla mai. Mi avvicino a lui e sorrido. Non ti succederà niente, sussurro, ci sono qua io con te.
Mamma, ripete lui, alzando un po’ la voce. Qui va a finire che ci sentono, penso, mi guardo attorno aspettandomi che da un momento all’altro balzi fuori qualcuno. Ancora tutto tranquillo. Vedo papà aprire di nuovo quella cazzo di fogna e allora gliela chiudo io. È per il tuo bene, gli dico, stringendo giusto un po’ quelle guanciotte paffute.
Ma va’ che gh’è mìa da ciama’ l’uspedal’, dice nonna fuori. La sua voce è più vicina. Guardo l’orologio, sono passati quattro minuti. Papà ha una lacrima che gli scende dall’occhio. Lascio le sue guance, gli rimangono dei segni rossi dove le mie dita stringevano fino a un attimo prima. Che cazzo hai da piangere, penso, ingrato che non sei altro. Sento i passi di nonna sul vialetto, ancora qualche secondo e aprirà la porta.
Ci vediamo presto, dico a papà. Lui se ne sta zitto e fermo, la lacrima ancora attaccata alle ciglia. Non l’ho mai visto piangere prima, mi dà una certa soddisfazione. Non è come aver pareggiato i conti, ma quasi. Ma va’ s’as poda, dice nonna sulla soglia. Mentre apre la porta premo il display sull’orologio. La sagoma di papà si slancia, si allunga a dismisura come tutto ciò che gli sta attorno. Il mondo prende la forma di milioni di spaghetti multicolori. Ora tutto filerà liscio, penso, e mi sento già meglio.

Stefano Ficagna

21 illustrazioni parziali di una fine

[ ill. 01 di 21 ]

Lei scende dalla macchina. Fuori piove. Quindi è finita?, dice lui. Ma lei lo ignora. Finge quasi di non averlo sentito. Poi corre verso casa. Non si rivedranno più

[ ill. 02 di 21 ]

Quindi è finita?, dice lui. Ma lei sembra distratta. Guarda fuori dal finestrino. Cagliari stasera è deserta. Cosa vuoi che ti risponda?, gli dice. La verità, dice lui, La verità, Laura, voglio la verità, le dice. Ma lei sembra distratta. Guarda fuori dal finestrino. Ci sono due blatte morte sull’asfalto

[ ill. 03 di 21 ]

A Cagliari piove come non capitava da settimane. C’è una Clio grigia parcheggiata in Viale San Vittorio 21. Dentro c’è una coppia che sta discutendo. Lui sembra molto nervoso lei no. I due si dicono qualcosa, poi la ragazza scende dall’auto

[ ill. 04 di 21 ]

Prima di scendere dalla macchina ha pensato che i ricordi non sono altro che delle invenzioni del nostro cervello. Delle fotografie a impulsi. Delle rielaborazioni del tempo e della realtà. Per un po’ ha guardato fuori dal finestrino. Cagliari sembrava deserta

[ ill. 05 di 21 ]

Era deserto il bar situato poco prima dell’appartamento della ragazza ( tav. 1 ); erano deserte le vie di riferimento fino al parco che riconduceva verso la 554 ( tav. 2 ); ed erano deserte le vie adiacenti, quelle con gli alberi quasi travolti dalla pioggia e dal maestrale ( tav. 3 )

[ ill. 06 di 21 ]

Lui prova a dirle qualcosa. Vorrebbe convincerla a restare. Ma lei sembra distratta. Guarda fuori dal finestrino, poi osserva gli interni dell’auto. Osserva la polvere presente sull’abitacolo, i resti di qualche pacchetto di Chesterfield accartocciato, osserva le lattine di birra sparse su tutti i sedili posteriori e sul tappeto

[ ill. 07 di 21 ]

Lei scende dalla macchina (una Renault Clio grigia del 2005, 5 porte, 1.2 benzina, 16V, 75CV). Fuori piove (pioggia intensa e velocità media del vento pari a 121 km/h). Lui è ubriaco (tasso alcolemico 2.07). Non si rivedranno più (a partire dal 21 maggio del 2022, ore 23:47

[ ill. 08 di 21 ]

Quindi è finita?, dice lui. Ma lei sembra distratta. Finge quasi di non averlo sentito. Cosa vuoi che ti risponda?, gli dice. Lui ha una camicia lisa che non si cambia da giorni. La verità, dice lui, voglio la verità. Basta, Andrea, dice lei, Lo sai benissimo com’è andata

[ ill. 09 di 21 ]

Per lui, fino a quel momento, la serata era andata alla perfezione. Erano stati in uno dei posti preferiti da Laura ( tav. 4 ), una pizzeria appena aperta e vicina al lungomare ( tav. 5 ). Lei però aveva mangiato poco, non aveva quasi toccato cibo quella sera. Poi erano andati a bere in un chiosco lì vicino ( tav. 6 ) e lì avevano iniziato a discutere

[ ill. 10 di 21 ]

Lei era rimasta in silenzio fino a quel momento. Aveva bevuto 3 bicchieri di bianco e aveva mangiato poco, non aveva quasi toccato cibo quella sera. Parli come tuo padre, gli avrebbe detto alle 22:56, Parli proprio come tuo padre

[ ill. 11 di 21 ]

Poco prima di scendere dalla macchina, ha osservato per l’ultima volta gli interni del posto in cui, senza troppo entusiasmo, avevano scopato negli ultimi mesi. Fuori dal finestrino, vicino all’insegna Algida posta fuori dal bar (vedi tav. 1), ha visto due blatte morte e due Ichnusa, dimenticate chissà da quanti giorni sul marciapiede

[ ill. 12 di 21 ]

La mano, che ora afferra la maniglia dello sportello e metterà fine a questa storia (fig. 1), è affusolata e magra. Le vene, sottili e minuscole, emergono come affluenti per convergere in un unico tremolio nervoso. Le unghie sono rovinate. Non è presente alcun residuo di smalto

[ ill. 13 di 21 ]

Gli occhi, che dopo due anni ora fissano per l’ultima volta Andrea ( fig. 2 ) sono cerulei e spenti. I capillari creano una sorta di corona di spine attorno alla pupilla dilatata. La sclera appare leggermente arrossata. Non è presente alcun residuo di pianto

[ ill. 14 di 21 ]

Lei scende dalla macchina e sa che questa sarà davvero l’ultima volta che si vedranno. Nel dettaglio: gli ultimi attimi primi dell’addio ( fig. 3a ); il momento in cui si volterà per sempre ( fig. 3b ); i primi passi della sua nuova vita ( fig. 3c )

[ ill. 15 di 21 ]

Lui ha continuato a ripetere la stessa domanda fino a quando non ha visto Laura andarsene e sparire sotto la pioggia. Poi ha notato un capello rosso, quasi rubino, rimasto incastrato come una pietra sul poggiatesta

[ ill. 16 di 21 ]

È sceso anche lui dalla macchina ed è andato al bar. E dopo la prima Ichnusa ha iniziato a guardare le loro ultime foto sul telefono. Se non fosse stato così ubriaco avrebbe ripensato a tutte quelle coppie che in qualche modo riescono sempre a vedere una luce nelle difficoltà. Un po’ come certi pesci abissali ( fig. 4 )

[ ill. 17 di 21 ]

E se non fosse stato così ubriaco avrebbe senza dubbio ripensato a quella coppia di cornacchie ( fig. 5 ), vista la mattina precedente, che mangiava le interiora di un piccione per poi separarsi e volare verso due cartelloni pubblicitari diversi. Si sarebbe reso conto che stare con qualcuno è senza dubbio qualcosa di molto più complesso dell’andare in pizzeria il sabato sera con una matta che ti sopporta

[ ill. 18 di 21 ]

Se non fosse stato così ubriaco avrebbe ripensato sicuramente alle sue parole. E a tutto il lungo discorso fatto da Laura in quei giorni. Avrebbe notato sul marciapiede le due blatte morte ( figg. 6-7 ) e si sarebbe ricordato di certe leggende metropolitane senza senso

[ ill. 19 di 21 ]

C’è chi dice, infatti, che le blatte siano capaci di sopravvivere a una guerra nucleare. Ed è con questo spirito che certe coppie convivono. Il punto è che a certe coppie, come la loro, a volte basta anche un semplice temporale

[ ill. 20 di 21 ]

Ma ormai era troppo ubriaco per capire. Era troppo ubriaco per tutto. Troppo ubriaco per non finire contromano per tutta la 554 ( tav. 7 ) con la sua Clio grigia sporca di fango

[ ill. 21 di 21 ]

Lei scende dalla macchina. Fuori piove. Corre verso casa e sa che non si rivedranno mai più. Le tremano le mani. Si maledice per aver aspettato tutto questo tempo

Diego Frau

Appunti di lettura: “Autobiografia di tutti” di Gertrude Stein

Ci piace citare gli autori più chiacchierati e originali. Ci piace sapere conversare sulle scritture considerate all’avanguardia, ma difficilmente troverete qualcuno che dichiari di essersi appropriato letterariamente della scrittura di Gertrude Stein. Il genio è troppo ribelle, anche a distanza di un secolo. Qui siamo nel ’37 e Gertrude, insieme alla sua amata Alice Toklas, compie un leggendario viaggio, per una serie di conferenze, negli Stati Uniti dov’è nata, e proprio alla vigilia della seconda guerra.

Nel ritorno in luoghi già conosciuti e amati, nel trascorrere dei giorni, o nel passare veloci in zone mai viste prima, Stein lascia impressioni di viaggio, racconti quotidiani, oggetti di discussione fremente, pensieri originali o dichiarazioni di poetica così come sgorgano dalla mente.

L’ambizione di questo testo, al di là delle definizioni di memoir, diario di viaggio, autobiografia o racconto, è quindi quella di essere il primo in cui Stein riesce a scrivere in “diretta”. Sono luoghi, persone, eventi ed emozioni di cui prende coscienza, e che subito riporta sulla pagina, con il loro adorabile disordine – che non si prenda per confusione – e con lo statuto di pensiero ancora da elaborare e rifinire. Come contemporaneità della scrittura e della percezione. La preziosità del volume edito da Nottetempo nel 2017 è data anche dal fatto che si tratta della storica traduzione di Fernanda Pivano, rimasta nel cassetto per decenni e capace di interpretarne tutta la carica di immediatezza. La ritroviamo fresca, come appena scritta. Un piccolo capolavoro, se amate le scritture di ricerca e le traduzioni raffinate.

Lidia Popolano