Affanni

Lo scrittore scrive il romanzo e si affanna. Il protagonista del romanzo una mattina si sveglia e si affanna, beve un caffè e si affanna, fa la doccia e si affanna, si veste e si affanna, esce di casa e si affanna, e insomma, il protagonista lungo tutto il romanzo si affanna. L’agente dello scrittore legge il romanzo e si affanna, gradisce ma consiglia comunque allo scrittore di aggiungere altro affanno. Lo scrittore segue il consiglio dell’agente e aggiunge altro affanno. L’agente dello scrittore propone il romanzo a un editore e si affanna. L’editore legge il romanzo e si affanna, gradisce ma consiglia comunque allo scrittore di aggiungere altro affanno. Lo scrittore segue il consiglio dell’editore e aggiunge altro affanno. Il redattore lima le bozze del romanzo e si affanna. Il grafico prepara la copertina del romanzo e si affanna. Il tipografo stampa il romanzo e si affanna. L’editore pubblica il romanzo e si affanna. Il distributore distribuisce il romanzo e si affanna. L’ufficio stampa pubblicizza il romanzo e si affanna. Lo scrittore si affanna a presentare il romanzo. I librai si affannano a vendere il romanzo. I corrieri si affannano a consegnare il romanzo. I lettori si affannano a leggere il romanzo. I critici si affannano a recensire il romanzo. Un po’ di affanno in più, scrivono, non avrebbe nociuto al romanzo. Il lettori si affannano a leggere le recensioni del romanzo. Le giurie dei premi letterari si affannano a soppesare il romanzo, a selezionare il romanzo, a premiare il romanzo. L’editore si affanna a preparare una nuova edizione del romanzo, un ebook del romanzo, un audiolibro del romanzo. Lo scrittore viene invitato ovunque e si affanna, e con lui si affannano le radio, le televisioni, il web, la carta stampata. Quando l’affanno complessivo sembra finalmente scemare una casa di produzione adocchia il romanzo, si affanna e decide di produrre una serie televisiva tratta dal romanzo. Consegna il romanzo agli sceneggiatori invitandoli ad aggiungere altro affanno. Intorno alla serie televisiva tratta dal romanzo si affannano in preproduzione, produzione, postproduzione. Si affannano registi, attori, microfonisti, montatori, musicisti, truccatori, costumisti, doppiatori, elettricisti, distributori, macchinisti, operatori di ogni sorta, creativi di ogni sorta, manager di ogni sorta, assistenti di ogni sorta. La serie televisiva tratta dal romanzo viene trasmessa in otto puntate stracolme di affanno, affannando gli spettatori per otto interminabili settimane e affannando anche i critici i quali, si capisce, avrebbero gradito comunque maggiore affanno. E qui ci si può fermare. Il quadro per sommi capi è reso: la catena degli affanni ingenerata dal romanzo è pressoché infinita. Un allucinato e allucinante affanno collettivo di cui qualcuno, presto o tardi, dovrà rendere conto.

Luigi Di Cicco

Nella grotta

Contratto metalmeccanico. Sono impiegato nella grotta, secondo settore piattaforma C, in alto a sinistra. Uccido chi entra nella grotta e chi esce dalla grotta. Gli strumenti messi a mia disposizione comprendono due picconi, una pala, venti sassi blu, un rudimentale lanciafiamme e quattro paia di coltellacci. Quarantadue ore settimanali, sette euro e novantuno lordi l’ora. Categoria D1.
Il mio capo è un gamberetto. Ha mille spilli che mi conficca nella nuca. Li conficca volentieri anche nelle schiene dei miei colleghi e nelle braccia e nelle gambe e nei petti di quelli che entrano nella grotta. Nessuno si accorge mai di lui fin quando non è a un passo di distanza, troppo tardi. Non mi sta molto simpatico, ma è stato generoso con me quando mia madre è venuta a mancare.
I colleghi del mio capo sono gamberetti come lui. Li vedo nascondersi sui tetti delle piattaforme dei miei colleghi, pronti a conficcare gli spilli nelle loro nuche. Durante le pause si stringono in cerchio e confabulano odiosi. Il mio capo avrà tanti difetti, ma quantomeno non confabula. Se possibile i colleghi del mio capo mi stanno ancora meno simpatici di lui. Qua dentro nessuno mi sta molto simpatico, tranne il Vecchio.
Il Vecchio è l’essere che ammiro di più. Non ho mai ammirato tanto nemmeno mio padre o i miei professori, anche se riconoscevo in loro la stessa grande saggezza: mancavano della sua forza, della sua infinita energia.
Saltare fino alla sua postazione è difficile, devo sollevarmi altissimo e spesso non mi bastano diciotto tentativi per raggiungerlo. Quando ci riesco, però, mi ricordo perché l’essere che ammiro di più è il Vecchio. Lavora il gesso con un grande bastone nodoso. Il Vecchio è fortissimo, nessun grande bastone nodoso gli dura più di un giorno o due. Ne ha sempre pronto uno di scorta, infatti. Lavora il gesso con le sue mani possenti, facendone cose magnifiche. I suoi movimenti sono esperti, ampi e vigorosi. Se qualcuno gli si avvicina troppo rischia di finire schiacciato. L’ho visto succedere, uno di quelli che entrano nella grotta era arrivato a spingersi fin lì – forse per colpa mia, che per guardare il Vecchio avevo trascurato le mie mansioni troppo a lungo. Lo disintegrò come se nulla fosse e mi sorrise per un breve attimo, mi sorrise per un breve attimo per poi riprendere a lavorare il gesso come se nulla fosse.
Nei giorni difficili, quelli in cui il capo esagera con gli spilli e sono in troppi a entrare e uscire dalla grotta, mi ripeto che la paga non è male e ogni tanto posso guardare il Vecchio che lavora il gesso.

Antonio Vangone

Apposta

Che dipinge prospettive per terra, o che esplora la casa abbandonata, o scarica l’app per imparare a suonare il pianoforte, impara a suonare il pianoforte, vince dei concorsi e suona a Berlino con i più grandi concertisti, grazie alla app, dopo aver dipinto un buco per terra, che tutti si sono sbagliati, ed erano tristi, e hanno abbandonato la casa

Marco Giovenale

A un vermer in grado di ragionare

Al vermer l’uomo pose il seguente indovinello. Qual è quella famiglia dove uno dei fratelli è una sorella, una delle sorelle un fratello, uno dei padri una madre ma una delle madri è due padri? Il vermer (Dominio: Eukaryota – Regno: Animalia – Sottoregno: Eumetazoa – Ramo: Bilateria – Superphylum: Protostomia – Clade: Lophotrochozoa – Phylum: Anellida – Classe: Clitellata – Sottoclasse: Oligochaeta – Ordine: Haplotaxida – Famiglia: Lumbricidae – Genere: Lumbricus – Species: Badensis) ragionò ben bene su quei dati, dati che in verità avrebbero spiazzato anche un q.i. di 200 e l’enigmista più esperto, e arrivò a una conclusione che lasciò l’uomo di stucco: la fame di alcuni uomini va oltre la discriminazione dell’appartenenza religiosa, e non pochi sono riconosciuti imperituramente come esseri famelici e voraci, a prescindere dall’essere Papefigues o Papimanes cavallereschi; ma è presso il circolo polare artico che avviene l’impensabile, quando a causa del disgelo potrete ascoltare le grida di una battaglia avvenuta secoli prima rimaste imprigionate nel ghiaccio.

Gateano Altopiano

due eppure uno

In un condominio a due scale, quando arrugginiti di tramonto si affacciano nello stesso istante, dalla sua postazione appartata vede sbeccare le teste. Portano entrambi un taglio corto, la riga da una parte. A destra l’occhio sembra soffrire la visibilità, a causa delle frange di capelli; a sinistra la vista, in parte libera, si spinge, come la sua, oltre l’angolo, risale il falsopiano e si raffredda sfocata tra i comignoli del villino e le antenne del palazzo ocra. Non gli è possibile da questa distanza capire ciò che dicono, ma è impossibile non notare il timbro di voce di entrambi, moderata, controllata, appannata di condensa per non farsi sentire. Si chiede perché non se ne restino al sicuro, e si chiede anche quale sia il motivo che li spinga a preferire di uscire allo scoperto a rischio di un’imboscata uditiva, cosa li porti a soffiare parole di vetro, gonfie e poi cave, quasi trasparenti. Diversa sorte li attende quando la finestra scelta è quella che affaccia sulla chiostrina dove in molti sgrullano tovaglie. In quel perimetro di fili tesi e doppi – inutilizzati ora, ma un tempo comodi per stendere i panni –, le chiacchiere dei due si rincorrono lungo un segmento di retta, da parete a parete, e non è difficile cogliere il senso, anche origliando di traverso dalla tendina a strisce di plastica, eredità del vecchio inquilino, la stessa che d’estate dipinge di riflessi verdi la sua faccia e la libreria in ingresso. Un giorno li vede salire i gradini che dal cancello conducono ai rispettivi portoni. Anche da dietro sono assolutamente simili, identici, perfino l’altezza ora gli impedisce di distinguere l’uno dall’altro. Un altro giorno li vede in trasparenza in cortile. Armeggiano alle cassette delle poste. Di sicuro parlano a voce bassa, come sempre, sbuffano fiato e parole che si condensano e si incrinano aggredite dal primo inverno e dalle temperature in discesa, entrambi infagottati, lo stesso pallore, solo le guance arrossate di freddo. Scende le scale che lo separano dal portone, i gradini a due a due, ma loro sono abili e veloci a schivare e, infilata la chiave nel portone, non fa in tempo ad aprire il suo che loro sono già svaniti nel vano dell’ascensore. Di ritorno da scuola li incontra sul falsopiano, gli è impossibile fare finta di non vederlo e passare oltre. A distanza li sente parlare, inconsistenti come il vento. Quando la distanza si riduce, si accorge che sono la stessa persona, madre e figlio, più severa l’espressione della madre, vagamente corrucciata e di rughe di espressione arrendevoli la fronte del figlio. Lo salutano guardando oltre l’inferriata, oltre il cancello, come se così riuscissero a entrare prima e a dissolversi come ombre colate di nero sul marmo dei gradini.

Cristina Pasqua

Autunno a Perugia #9

La prof ci chiede quale sia il nostro tallone d’Achille. La greca Kalypso risponde che sono i suoi amici. Le dico che ho un problema con questa frase. Si offende. I suoi amici sono il suo tallone d’Achille.
Il tallone d’Achille dell’argentino è suo nonno.

La prof nous demande quel est notre talon d’Achille. Kalypso répond que ce sont ses amis. Je lui dis que cette phrase me pose problème. Elle se vexe. Ses amis sont son talon d’Achille.
Le talon d’Achille de l’Argentin est son grand-père.[1]


[1] Rosine Inspektor, traduttrice francese (dall’inglese e dal tedesco) ha scritto questo racconto durante
la frequentazione di un corso di lingua italiana presso l’Univesità per Stranieri di Perugia. Il testo è stato scritto direttamente in italiano e solo successivamente ripensato in francese.

[1] Rosine Inspektor, traductrice française (de l’anglais et de l’allemand) a écrit ce texte alors qu’elle suivait un cours de langue italienne à l’Università per Stranieri à Pérouse. Le texte a été rédigé directement en italien puis repensé en français.

 

Orizzonti

Vorrei fare quel gesto di quando pulisco gli occhiali e nel mentre che la stoffina tra l’indice e il pollice accarezza le lenti, ecco in quel mentre mi piacerebbe ammirare l’orizzonte mentre pulisco le lenti ma se pulisco le lenti non vedo l’orizzonte. I miei orizzonti sono limitati dalla mia stessa vista. Ne ho parlato con lo psichiatra. È un gesto che desidero fare stando in piedi e ammirare l’orizzonte dal balcone di casa mentre pulisco le lenti. Io invece l’orizzonte, mentre pulisco gli occhiali, lo devo immaginare e non è la stessa cosa, ne ho parlato con un filosofo, e allora quando indosso gli occhiali guardo per tutto il tempo solo orizzonti, per ricordarmeli quando poi pulisco le lenti. La gente dice che guardo oltre. Io, invece, guardo gli orizzonti. Il gesto della pulizia delle lenti non coincide mai con la mia voglia di orizzonte. Gli occhiali limitano i miei orizzonti, devo dirlo all’oculista. Ho provato a mettere le lenti a contatto, le uso quando devo pulirmi gli occhiali. Vado in bagno, poso gli occhiali, metto le lenti a contatto, metto gli occhiali per abitudine, non vedo niente, tolgo gli occhiali, vedo come quando ho gli occhiali ma sono senza, vado sul balcone, guardo l’orizzonte mentre pulisco le lenti. È bello l’orizzonte, meglio di come lo immaginavo. Sì? Poi torno in bagno, tolgo le lenti e vedo come quando non ho gli occhiali, mi rimetto gli occhiali e le lenti sono pulite. Torno a guardare l’orizzonte. È bello come quando me lo immagino. Sì? 

Massimo Gerardo Carrese

Succo d’arancia

Borraccia in plastica trasparente alta venticinque centimetri capiente settecentocinquanta millilitri. Tappo e base spessa un centimetro punto tre in acciaio – CHINA BPA FREE. Non lavabile in lavastoviglie ma viene comunque lavata in lavastoviglie. Non adatta a contenere bevande gassate ma ha contenuto bevande gassate. Inefficiente nel mantenere la temperatura. Bella malgrado qualche ammaccatura grazie al disegno di una nube temporalesca da cui si stagliano tuoni pietre preziose grosse gocce di pioggia e uno spicchio di luna legato con lo spago impresso in bianco. Complimentata più volte da amici e conoscenti mentre infilata nella tasca laterale esterna di uno zaino nero North Face. Ricevuta in regalo quattro anni prima, considerata dapprima preziosissima, poi un amaro ricordo, poi demistificata fino al comune recipiente. Oggi deputata esclusivamente alla conservazione del succo d’arancia spremuto fresco nelle mattine di metà gennaio, quando in giardino maturano in gran numero agrumi considerati non abbastanza buoni da mangiare.

Antonio Vangone

Proprio in un tubo

Stavo costruendo un tavolo e avevo bisogno soltanto di un tubo per finirlo, perciò andai a cercarne uno nella rimessa in giardino. Lo trovai facilmente ma notai anche il debole bagliore che proveniva dall’interno. Mi preoccupai che potesse essere contagioso e pensai di lavare via quella luce. Guardai meglio all’interno: tra la folta vegetazione che vi era cresciuta riuscii a scorgere una famigliola di angeli color grigio ruggine che, quando si videro scoperti, cercarono di confondersi nell’erba alta e acquattandosi davanti agli angoli. Pensai che, tutto sommato, anche l’interno del tubo apparteneva a me e vi infilai il pollice per stanarli: allora non sapevo che gli angeli si infastidiscono facilmente. Uno di loro mi diede un morso abbastanza doloroso che mi fece desistere dal riprovare. Oltretutto, a stare lì, stavo invecchiando inutilmente e conclusi che in definitiva era meglio lasciarli in pace. Prima di andare via chiesi perché avessero scelto di abitare proprio in un tubo. Mi risposero in coro che le tartarughe offrono un rifugio molto più scomodo. Avrei voluto costruire un laghetto solo per loro ma nelle mie tasche non c’erano abbastanza cemento e senso di colpa.

Angelo NGE Colella

Whatsapp

Me lo scrivi in un lungo messaggio al telefono: che le case le strade i firmamenti di questo paese ci sopravvivranno. Altri dopo di noi calpesteranno i ciottoli medievali che in questo momento luccicano nella notte levigati dalla pioggia. Altri, come i piccolissimi tardigradi, ci sopravvivranno pur senza cibo e senza acqua, pur nelle condizioni più estreme. E nel messaggio anche mi scrivi: non dimenticare. Non dimenticare di comprare il pane, non dimenticare la confezione da mezzo litro di latte scremato. Ah, e compra pure il detersivo per i piatti. Ricordati che domani arriva l’idraulico. E ancora: i morti. Anche morti ci sopravvivranno; perché chi è stato esisterà per sempre.

Alfonso Lentini