Il cervo

L’ammiraglio poteva sorprendermi in ogni momento perché io non conoscevo il calendario delle licenze. La nostra casa era, per lui, piena di spiacevoli ricordi e, se un malriposto senso del dovere non ce lo avesse ricondotto con imprevedibile costanza, sarebbe rimasto a Tunisi o nel bosco dove, sfortunatamente, avevamo una casa vicino al lago. Lassù, nel bosco, la vegetazione era talmente fitta che, lungo i sentieri in salita, l’odore della linfa suppurata dai tronchi umidi era tanto forte da farmi mancare il fiato. Inoltre il sole non penetrava tra i rami intrecciati e, lungo quelle stradine viscide e scure, l’ammiraglio sosteneva di aver visto un cervo, un cervo gigantesco, le cui corna mimava usando le braccia. Diceva che aveva gli occhi grandi come i palmi delle sue mani e il pelo lucido e bruno con macchie più chiare. Invasato, lo descriveva spalancando le orbite, con la saliva raggrumata ai lati della bocca. L’Africa gli è entrata nel cervello, pensavo quando lo vedevo umiliarsi davanti agli amici e agli sconosciuti a cui raccontava queste cose. Nessuno gli credeva e lo compativano per quello che ci era successo e perché cervi a San Lorenzo non se n’erano mai visti. Cinghiali, lupi, faine… ma cervi, e così grandi poi… sarebbe stato come sostenere di aver visto un pinguino, un alce o un capibara dal muso squadrato. Nelle poche ore che rimaneva in casa era solito occupare la poltrona nera del salotto, vicino al divano, dove sprofondava in un sonno inquieto e leggerissimo. Si svegliava in continuazione e, annebbiato dalla stanchezza, rimaneva con gli occhi socchiusi, osservando la porta dietro la quale Alberta dipingeva. Parlava molto, l’ammiraglio, con la voce che a volte era un sibilo e altre un tuono. Si lamentava di tutto: di me, di Alberta, della marina, dell’Africa, dei tunisini, del mare… e sembrava trovare un po’ di pace solo quando ricominciava la litania del cervo. Era un sogno il suo, una visione di cui cercava vanamente di tracciare i contorni sfuggenti e luminosi. Cominciava a raccontare come gli avrebbe sparato, con quale cartuccia e a che distanza e poi, bruscamente, si fermava. Ormai si era convinto che persino io lo prendessi per cretino.
Alberta, dal canto suo, nemmeno lo ascoltava, non ascoltava nessuno e passava ogni momento della sua giornata dentro lo studio dove l’odore dei diluenti era talmente forte che non si respirava. L’ammiraglio, una volta, cercò di farla ragionare, voleva aprire la finestra che restava chiusa e coperta da tende di velluto verde scuro anche d’estate e di notte. Lei lo guardò drogata dai fumi di vernice come se la voce di suo marito provenisse dal fondo di una caverna. Era uno scricciolo, Alberta, e la sua sagoma era resa ancora più goffa dalle ampie camicie bianche e le mani e i polsi sempre sporchi di vernice. Al cospetto dell’ammiraglio scompariva, ma la sua ostinazione era più forte di tutto e la elevava. Se vuoi stare lì tutto il giorno, la supplicò un pomeriggio quando, esausto di vederla impazzire con tanta pervicacia, si decise ad affrontarla, almeno cambia l’aria.
Ricordo che mi aspettavo una scenata, inorridivo all’idea e lo stomaco mi si contraeva per lo spavento, invece lei gli sorrise con una dolcezza disarmante al punto che temetti avesse perso la ragione. Gli sfiorò una guancia, rimase a osservarlo con occhi compassionevoli e amorosi e si chiuse di nuovo nella sua stanza.
L’ammiraglio sarebbe stato capace di portare un intero equipaggio alla carneficina, eppure non era in grado di opporsi a sua moglie, alla sepoltura di sua moglie, al suo vivere in quel modo aberrante cercando di aggrapparsi a ricordi che avrebbe perduto comunque. Alberta chiudeva la porta a chiave e per me, che ero suo figlio, ogni giro di serratura rappresentava un’ostinata insubordinazione alla vita, un sottrarsi irragionevole eppure – finii per convincermi – non c’era modo diverso di esistere per quella creatura così capricciosa. Alberta non era precisamente un essere umano, nella mia fantasia, quanto piuttosto una forma di vita che andava accettata per come si era sviluppata.
Eravamo persone sole. A volte mi aggiravo nella villa e non capivo come ci ero entrato. Sedevo sul grande balcone e osservavo il duomo di San Lorenzo e ascoltavo le campane. Non pensavo a qualcosa di preciso mentre affondavo nei cuscini, mi rannicchiavo sotto una coperta e ci restavo per ore, anche quando pioveva. Arturo, mi dicevo accarezzandomi gli stinchi, un giorno ce ne andremo via di qui e niente ti mancherà.

Pierangelo Consoli