Case che non conosco

In una piazzola lungo la strada, in cima alla collina, appoggio il capo al finestrino, lagunare e fregiato da rododendri. Intimo. Osservo.
I tetti stanno oltre, al fondo degli alberi. Le luci mobili come lucciole: le case sembrano pulsare, oltre le fronde nere, sulla baia del lago fermo e intatto – una piastra blu e dolorosa, un magnifico coltello. E ogni casa è un cuore che batte silente, riflesso e illuso. Le case non si possono conoscere, questo è certo, solo immaginare. Ecco la calma gonfia e blu, enfia tra le stelle in unico respiro. Respiro, il finestrino intimo. Liscio e gentile. Il velo penetra – il rododendro ti avvolge. Quasi dormire, ma meglio, è un sonno che si gode.

Riaccendo il motore. Le ruote corrono verso il loro centro e lontano dal loro centro: la predestinazione è quasi credibile, l’emozione di un grembo. Le masse nere dei pendii, la costa sinuosa e la linea da percorrere, il lago liquoroso: ogni curva costeggia il cuore della montagna. Se c’è prostrazione e dolore e le forze mancano, si cerca un rimedio e non una soluzione. Poi sopraggiunge il terrore di fare di quel rimedio la propria vita. La speranza che ripongo oltre ogni curva, e oltre ogni dolore, è di trafiggerli e scomparire al loro centro. Così, ogni montagna è salvezza, ma mai la propria.

Paola Marcolini

Gita al lago

Sulle rive e sulle colline intorno al lago le case si disseminano a macchie colorate. Nel verde, galleggiano verso il cielo.
A mezzogiorno tutto è liquido e riposato in un cielo di vernice. A unire le case ci sono le linee grigie delle vie che scorrono chiare e frammentate dalle fronde, abitate da macchine e mosse dal vento. Ogni cosa emette un suono.
Guidando per venti minuti la strada sale e si arriva a una terrazza grigia, in cemento. Nel muoversi verso il promontorio più alto si sa che si perderà qualcosa: si vedono le macchie colorate coprirsi al tramonto, i tetti scendere, gli alberi scivolare. Su quel terrazzo tutto scivola via. Gli alberi inteneriti, le ombre scure che li nutrono e uniscono il più dolce al più profondo. Il cielo acquista una prospettiva, fa per allontanarsi. Oltre c’è il bianco di un universo distante che non si può comprendere: tutto sembra poter essere trattenuto da quel promontorio. Appoggio un fianco alla ringhiera.

C’è l’ombra di un uccello sulla ringhiera, ma non si vede perché le ringhiere non sono fatte per le ombre – semplicemente, non hanno la superficie per accogliere l’ombra. L’uccello prende il volo. Ora tu mi dirai che non ha molto senso e non capisci, ma se ti dicessi che quell’uccello è la mia (tanto odiata e stopposa questa parola che sto per usare) “anima”, e tu vorrei che fossi la mia balaustra? Non devi né riflettermi né capirmi. Ci sei e basta.

Paola Marcolini