Convivenza

Nel quartiere la luce si rubava. Lungo il perimetro formato da abitazioni con contatori attaccati al sistema di illuminazione pubblica, i collegamenti elettrici erano trafugati. In estate tiravano fuori un ventilatore di quelli con le palette eoliche ingabbiate in una rete metallica. Il vento meccanico faceva volare per la cucina foglietti di carta, presine, buste di plastica, foulard, soldi, sacchetti di raso, potpourri. D’estate, con le finestre aperte, si ascoltavano le conversazioni dei vicini; perdevano ogni coerenza, interrotte dai commenti sulle trasmissioni televisive pomeridiane lasciate ad alto volume e su qualche reel.

I vecchi tubi di scarico del sistema idraulico ogni tanto, sotto le mattonelle, emettevano gargarismi fino a strozzarsi, come se cercassero di risucchiare le stanze e l’attenzione. A volte la pressione della melma faceva saltare la vite del tombino del bagno che sputava una matassa di capelli e peli pubici di loro tre, impastata a una strana sostanza bianca e gommosa che l’idraulico aveva definito terzo stadio della vita dei saponi. Le chiavi erano bloccate nelle toppe forse per via del dislivello dei pavimenti. Si erano convinte che fuori da quella casa si sarebbero poste in una condizione servile. Questa paura era ciò che ancora le univa. Fuori avrebbero dovuto ricominciare tutto da capo. Ognuna per conto proprio.

Erano nate battute spontanee alle quali ridevano solo loro, come succede nelle famiglie. Dicevano che ognuna era diventata la terza parte e non era più sola. Prima avevano organizzato dei turni per affrontare la notte, ora nessuno riusciva a dormire.   

Una di loro prese la parola e raccontò che quel vecchio laido del suo datore di lavoro aveva acquistato un cane per andare a caccia. Aveva pochi giorni di vita e per questo gli aveva messo vicino una sveglia avvolta in un panno caldo per simulare il battito del cuore della madre. Un’anatomia artificiale per garantire la presenza. Dopo qualche mese bisognava iniziare l’addestramento: lo teneva bendato in un garage dove nascondeva i roditori che avrebbe dovuto stanare solo con l’aiuto dell’olfatto; le scariche del collare elettrico servivano a correggere i suoi errori. 

Doveva andare a lavorare.

Lungo la via di casa c’era un forno aperto anche di notte. Le impastatrici erano manovrate da uomini dagli arti superiori enormi, come affetti da trisomia. Tutto dentro era infarinato. Ogni tanto, quando smontava dal lavoro, prima di salire, prendeva per tutte e tre dei cornetti alti, appena sfornati; era un gatto che portava una preda in dono al padrone per riconoscenza e per contribuire alla vita domestica. 

Ricordò di quel tunisino conosciuto in Germania; la faceva ridere tanto e diceva di essere lì per ein fluss of flus, se era vero che fluss in tedesco significasse fiume e, nel loro derja, l’arabo tunisino, denaro. Aveva frequentato un rifugiato pachistano per qualche mese e poi gli aveva urlato contro che era finita. Lo aveva fatto per il gusto di metterlo alla prova e per capire se riuscisse a conformarsi fino in fondo ai valori di quel mondo in cui era approdato dopo aver rischiato di morire e dove ora campava da sopravvissuto.

Maria Teresa Rovitto