Possiamo veramente poco – appunti sulla fruizione distratta del reale

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Possiamo veramente poco, dire l’immagine, sfiorare l’altro, cancellare ciò che ci separa.
Un salumiere napoletano che ripete “Con mollica o senza?!” mentre spalma delle mousse gourmet su un panino assieme a una distesa di affettati igp, l’ultima immagine che mi accompagna prima del sonno, prima dell’inizio dell’ipnosi in cui le stesse immagini mi inseguono, si sfaldano nella mia biochimica, entrano prepotentemente in ciò che raduno sotto il mio nome.

Non c’è mutamento in questo mare di nebbia, il capoverso dei volti, la più timida delle stelle mattutine, Il gracile affollarsi di coincidenze a ritroso trova riparo soltanto nel possibile.

Il nuovo cane di mia madre, il figlio neonato della mia compagna di banco al liceo con cui ci ho provato per anni, un trapper col culo su una Tesla nuova di pacca, gli occhi strappati di Santa Lucia in un quadro di Francesco del Cossa.

Ogni giorno ricapitolo i miei possibili attraverso algoritmi che mi vendono la versione migliore dei forse.

Avrei dovuto forse prenotare quella stanza a 400 euro su Airbnb per andare a quel festival di musica elettronica di cui conosco gran parte della line-up, lei me ne aveva parlato bene, peraltro ho letto che collaborano con uno studio di architettura che ha creato dei padiglioni eco-sostenibili, il tutto sottopagando giovani tirocinanti con contratto di collaborazione occasionale, ma ciò poco importa in questo momento.

Mia nonna era in Etiopia negli anni ’30 quando il paese era una colonia italiana, io faccio colonizzare i miei sogni con le immagini che fruisco e mi illudo plasmino l’identità che ho ritenuto più funzionale al gioco dell’esistenza.

Quest’anno ho ordinato 23 volte su Justeat, cercando di dare sempre almeno 2 euro di mancia per risarcire i miei sensi di colpa di fronte a questi occhi spauriti, ciclisti dal grande zaino arancione o turchese, studenti universitari o giovani venuti a piedi dal Pakistan o dall’Afghanistan, sfuggiti alla provincia italiana o a chissà quale guerra, per finire a portarmi quasi fin dentro casa hamburger con cipolle di Tropea caramellate o sushi in versione fusion. Dopo i 30 anni si affinano le modalità di distinzione coi pari, c’è una gara al rialzo nella selezione dei beni posizionali, i cubicoli e le nicchie in cui rifugiarsi a sentire l’eco del proprio ego richiedono il giusto equilibrio tra entropia e mobilio di modernariato, tra arredi scelti da padroni di casa e potere d’acquisto simbolico.

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Il dominio sull’altro prosegue in ogni piega dello spazio-tempo.

Forse soltanto i ricordi, i cassetti più reconditi della memoria, un altrove nello ieri o nel domani, sono sottratti a questa vischiosa marea.

24 crediti formativi universitari + qualche manuale permettono di accedere a un posto fisso con 3 mesi di stacco, controbilanciare le aspettative di tua madre e le proprie attese, gli errori di valutazione, le porte chiuse troppo presto, le deformazioni professionali.

L’astrologia e la fisiognomica sono scienze per interpretare il reale, al pari del machine learning o del catalogo di gesti per comunicare un rifiuto, farsi identificare tra un gruppo di pari, ricapitolare il proprio esserci.

Aprirsi all’altro è il più grande salto nel vuoto, secondo soltanto al crinale di funzionalità che osservi sfaldarsi conseguentemente all’interazione tra farmaci e alcol.

Non distinguere la scrittura aforismatica dai manuali d’auto-aiuto, dai bugiardini degli psicofarmaci, dalle frasi sull’incarto dei Baci Perugina.

Ognuno con diverse forme e modi si racconta una storia consolatoria, riverberandosi in non-detti, in gesti digitali, in frammenti di immagine da condividere a una cerchia più o meno ristretta. Ci vuole una teoria istituzionale dell’errore per attribuire valore condiviso a scelte di vita sbagliate, a giorni o decenni da dimenticare, a frasi rimaste incomplete.

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Tornando indietro non avrei dovuto prendere così tante pastiglie di ecstasy quando andavo a ballare, anche se la zona di indistinzione allucinatoria in cui sonno e veglia divengono un tutt’uno negli after, quella glassa anfetaminica dai colori saturi in cui si viene a colloquio con il proprio super-io è difficilmente replicabile altrimenti.

Forse filosofia non era la scelta più congeniale per l’entrata nel mondo del lavoro, forse una semplice terapia cognitivo-comportamentale avrebbe reindirizzato alcuni comportamenti disfunzionali in una cornice più urbana, forse meno romantica ma più spendibile sul mercato simbolico.

Forse Dio ha voluto tutto questo per me, i tic da abuso di sostanze di sintesi, l’insonnia come unica compagna per la vita, l’impossibilità di aprirsi veramente allo sguardo dell’altro.

Ho sfogliato distrattamente più foto di gatti con caption divertenti in un pomeriggio in hangover di quante ne circolino da quando è stata inventata l’immagine riproducibile digitalmente. Ci vorrebbe un tasto di impostazione della privacy per sfuggire agli occhi di chi ancora non conosciamo o di chi vogliamo evitare.

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L’internet commerciale è una grande bolla materna e addomesticante, uno zuccherino pavloviano per coltivare la propria anima.

Un bel dì vedremo ricapitolata la nostra esistenza in una somma totale delle immagini concepibili. Foto di gatti, lolite giapponesi dai seni enormi e il campionario di ipnosi che tentano di venderci giornalmente.

Sono così nostalgico da autodiagnosticarmi un disturbo presente in una versione non più attuale del DSM, in nome di uno psico-modernariato di cui sicuramente non avete sentito ancora parlare. La mia colf ha un viso costellato di rughe, una cartografia di pianti e notti insonni, per 8 euro all’ora senza contratto sa stirare e ascoltare l’esile incanto di coincidenze aggiustate, come lavatrice che singhiozza il bucato. Il più ostinato rimpianto è come lo sporco, si scioglie a fatica col tempo.

Giulio Giadrossi