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Mi ricordo la prima volta che ho dormito, stavo percorrendo la rampa di scale delle elementari, c’era un ragazzino idrocefalo che dondolava, chissà che fine ha fatto. Avevo un de profundis sotto il grembiule, nell’aria un odore di Max Weber, tutta roba implicita, niente che sollevasse questioni imbarazzanti, tipo perché i gabbiani si scannassero nel cielo delle grandi città, tipo le pulci, il tetano, che avventure! D’altra parte c’erano ancora le lucciole, assurdo se ci pensi, e io mi dicevo sono qui? Sono adesso, io? La prima volta che ho dormito me la ricordo ancora, mi avevano invitato al torneo delle classi di un’altra scuola e facente funzione di straniero ho raccolto il passaggio del mio compagno sulla tre quarti e dopo aver percorso una ventina di chilometri palla al piede mi sono ritrovato ingabbiato nell’angolo più distante, ricoperto di cicatrici, di ragnatele. Frustrante. Così mi sono girato con le mani nel sacco e ho colpito la sfera con tutta la forza che aveva, tentando di crossare per il centravanti accorrente. Ci credereste? Il tango si è insaccato sul primo palo, portiere uccellato, e io Pelè, Cruyff, Alfredo di Stefano. È stata la svolta. Ho dormito a lungo a intervalli regolari, lontano dai pasti, ma era inevitabile che a un certo punto mi svegliassi, e da quel momento mi sono formato memorie vaghe e nebulose che si confondono. Di sicuro si era fatta una certa ora, le cose avevano preso una piega, l’etere mandava in onda le canzoni di Bennato.
Paolo Antoniazzi