Mi ricordo la prima volta

Mi ricordo la prima volta che ho dormito, stavo percorrendo la rampa di scale delle elementari, c’era un ragazzino idrocefalo che dondolava, chissà che fine ha fatto. Avevo un de profundis sotto il grembiule, nell’aria un odore di Max Weber, tutta roba implicita, niente che sollevasse questioni imbarazzanti, tipo perché i gabbiani si scannassero nel cielo delle grandi città, tipo le pulci, il tetano, che avventure! D’altra parte c’erano ancora le lucciole, assurdo se ci pensi, e io mi dicevo sono qui? Sono adesso, io? La prima volta che ho dormito me la ricordo ancora, mi avevano invitato al torneo delle classi di un’altra scuola e facente funzione di straniero ho raccolto il passaggio del mio compagno sulla tre quarti e dopo aver percorso una ventina di chilometri palla al piede mi sono ritrovato ingabbiato nell’angolo più distante, ricoperto di cicatrici, di ragnatele. Frustrante. Così mi sono girato con le mani nel sacco e ho colpito la sfera con tutta la forza che aveva, tentando di crossare per il centravanti accorrente. Ci credereste? Il tango si è insaccato sul primo palo, portiere uccellato, e io Pelè, Cruyff, Alfredo di Stefano. È stata la svolta. Ho dormito a lungo a intervalli regolari, lontano dai pasti, ma era inevitabile che a un certo punto mi svegliassi, e da quel momento mi sono formato memorie vaghe e nebulose che si confondono. Di sicuro si era fatta una certa ora, le cose avevano preso una piega, l’etere mandava in onda le canzoni di Bennato.

Paolo Antoniazzi

afterimage

la corrispondenza privata, l’acquavite nei campi, le stoppe di ghiaccio, stivali, cuoio, pali di linee. senza chiederci la ragione di questo bisogno di eccesso.
circoscritti dalla luce che filtra attraverso la porta aperta: il recupero d’aria, qualche scambio di spazio. la porta della baita dà su un bosco di abeti sovraesposti, una luce porcellana.
è tutto legno, è tutto pareti, è tutto pavimento, è tutto tavolo e sfregamento.
la gonna si apre e si richiude nel giro di danza. due fotogrammi. tu a destra, io a sinistra. tu a sinistra, io a destra. tra le due immagini la presa si fa più possente. persistenza della visione, la chiama il signor Plateau. pur non visibile, è lì che avviene. un’abitazione che si capovolge, un codirosso in volo sotto di noi.
ecco il gong, il segnale per il pranzo.

Eda Özbakay

déclic – Una nuova casa editrice, due anteprime, due feste: a Perugia e a Roma

I primi due libri déclic usciranno il 16 febbraio e il 15 marzo 2024. Il primo sarà L’ordine sostituito, la nuova antologia del multiperso; il secondo SpuntiSunti di Massimo Gerardo Carrese.
A dicembre ci saranno due serate di anteprima e di festa a Perugia e a Roma.

Nelle immagini di seguito tutti i dettagli

Ci tornavo

Ci tornavo sempre, nell’appartamento, vuoi per Francesca, vuoi per Martina; a volte per Marco. Ci tornavo dopo il lavoro anche se non era mio, l’appartamento; ci tornavo senza alcun ricordo della prima volta in cui ci ero stato, non doveva essere troppo tempo prima, ero a Roma da soli due mesi, in ogni modo non me ne ricordavo e del resto non m’importava, dal momento che ci tornavo. Loro, le persone – Martina, Francesca, Marco, Paolo, Laura, Marcello, Luigi, Armando, Ines, Lucia, Irene, Arianna – non si stupivano di vedermi arrivare e mi proponevano di fare quello che stavano facendo: guardare un film, suonare, cucinare, mangiare, dormire. Io ne ero ben contento, ma non facevo mai la stessa cosa due volte: dopo Monica e il desiderio o una carbonara, dicevo sempre loro che mi era piaciuto, li ringraziavo, poi non mi trattenevo. Loro, invece, le cose le rifacevano: Marco cucinava, Francesca guardava film, ognuno faceva sempre le stesse cose e pareva naturale così. Non ne abbiamo parlato. Ci è voluto un pezzo, ma a un certo punto ho terminato le cose da fare con loro, ci tornavo lo stesso, bevevo il caffè al bancone della cucina, ascoltavo i loro racconti senza parlare. All’inizio li ascoltavo attentamente, uno alla volta o tutti assieme, venivo via di lì e ci pensavo su, poi ho cominciato a distrarmi, mentre parlavano; con una scusa o l’altra me ne andavo sempre prima, a volte mentre stavano ancora parlando. Non riuscivano a capirne il motivo e la cosa, credo, non piaceva. Non ne abbiamo parlato. Ho cominciato a tornare meno spesso; talvolta, me ne ricordo bene, cominciavo a camminare con quell’intenzione, ma poi mi dimenticavo di tornare. Le volte in cui tornavo facevano cose che prima non mi era mai capitato di notare: lavarsi i capelli, asciugarseli col phon, stirare. Non mi parlavano più, apparentemente; però mentre stiravano o si pettinavano i capelli bagnati si dicevano, tra loro, cose a voce alta, si gridavano cose da una stanza all’altra, e io credo che quelle cose fossero dirette a me. Una volta sola mi chiesero di tornare, l’indomani. Io allora ci provai, cercai di tornare davvero, almeno per un po’, ma non riuscii più a trovare la strada, l’indirizzo non lo avevo mai saputo. E allora non sono tornato.

Caterina Iofrida

Dis cor so ciuff ciuff #5

Sempre non è avverbio che si addica all’impermanenza di questi giorni in cui nemmeno ti senti al sicuro a salire su un treno locale che si dirige lemma lemma verso la città di Messina. Eppure ci salgo sempre dal lunedì al venerdì e in questo periodo dell’anno porto con me un foulard che indosso sempre appena mi accorgo che tira un’aria che ha smesso di essere estiva. Se anche piovesse di pomeriggio al ritorno dopo una mattinata di sole non avrei di che preoccuparmi avendo in borsa alla non si sa mai sempre un ombrello. Il posto sul treno mi è diventato quasi fraterno, quando possibile sempre lo stesso, in quarta carrozza, guardo il paesaggio, un po’ leggo un libro e un po’ guardo intorno, ascolto gli altri e ogni tanto dico la mia, sempre così. Mi si dica pure Sempronia evviva la privacy io non mi offendo ma potrei dire che i passeggeri che vedo ogni giorno lo sono altrettanto, tanti semproni che si tengono strette abitudini a cui neanche fanno più caso, ogni piccola cosa certa è un’iniezione antipanico che tiene in piedi e in cammino sbirciando dai parapetti distanti gli abissi del caos quando basterebbe appena un salto.

Il balzo di quel giorno fu come prosecuzione naturale della mia osservazione, la vedevo che borsa marsupio usurata con la tasca mezza sdrucita e il pelo ferito fosse sembiantemporaneo, per non farmi scoprire di aver capito guardai la scena riflessa sul finestrino per questo prima lo chiusi:
che senza dare a vedere si spinge giù e fa finta di rotolare come borsa marsupio caduta quando in realtà era canguro_ttame che si allontanava a spinte di zampe di coda, mettendo mano alla tasca mi sembrò tirasse fuori stropicciato foglietto di carta.

Per ritornare alla normalità della cosa non caos faccio finta di niente. Ma confermo che anche se raro, camuffato canguro ridotto male che se la dà a zampe non è forse normale? Capito capitano della polizia incaricato del caso? In quarta carrozza è andata così.

Makku Fùnniri
a poet’errorist

Telefonare ai defunti

Da qualche mese un nuovo servizio permette di telefonare ai defunti. Il funzionamento è semplice: le tombe che hanno attivato l’allacciamento sono dotate di un apposito apparecchio, per i gettoni basta rivolgersi al guardiano.

A quest’ora di un lunedì d’autunno, il cimitero è quasi deserto. Camminando lungo il viale, vedo solo un’anziana che parla concitatamente al telefono, inginocchiata accanto a una tomba. Uno scoiattolo nero si arrampica furtivamente su un cipresso.

Mi avvicino a una lapide coperta di muschio. Da un vaso di ottone ossidato escono quattro rami secchi. Su un lato, accanto alla foto e all’iscrizione TERESA BABIGHIAN – 15 06 1928 – 7 11 1997, è stato applicato da poco il telefono, di colore nero. Alzo la cornetta e la porto all’orecchio. Dà il segnale di linea libera. Frugo nella tasca dei pantaloni e inserisco il gettone, esitando un attimo prima di trovare il verso giusto nella fessura. Il telefono squilla due, tre volte.

«Giacomo!»
«Zia! Come stai?»
«Io sto bene. Ma tu, perché non mi chiami mai?»
«Ho avuto dei problemi con il lavoro.»
«Sei cattivo.»
«No zia, ascolta. Ho poco tempo. Non potresti, per caso…»
«Quando vieni a trovarmi? Ti faccio le polpette con il sugo di pomodoro, che ti piacciono tanto.»
«Zia, ti prego. Mi basta un terno. Solo una volta.»
«Giacomino, ti ricordi quando eri piccolo? E siamo andati con lo zio Alberto in Tirolo? Eri così carino, tutto biondo. Ti abbiamo comprato un paio di pantaloncini di cuoio con le bretelle e una stella alpina ricamata. Sembravi un tedeschino.»
«Zia, mi ricordo, però adesso mi dai i numeri?»
«Devo averli scritti da qualche parte… dove ho messo quel bigliettino? Aspetta, caro.»

Sento il rumore della cornetta appoggiata sul tavolo, poi dei passi che si allontanano. Con un rumore metallico, il gettone cade e la chiamata si interrompe. Riappendo la cornetta e mi accendo l’ultima sigaretta rimasta nel pacchetto. Anche se è una bella giornata di sole, penso, inizia a fare fresco.

Daniele Varelli

L’invincibile armada

Con l’arrivo della primavera, ce ne stavamo in piazza a bere l’aperitivo quando il cielo si fece rosso e si riempì di lapilli. Le lingue di fuoco si intrecciavano creando uno spettacolare effetto cromatico e le nuvole si inzuppavano di viola. Stava esplodendo Černobyl, ma da noi giunsero solo pochi granelli di polvere. Qualche ora dopo scoppiò la guerra del Peloponneso e in piazza piovvero le frecce delle navi achee. Ma il Peloponneso è lontano, si disse, infatti accanto al nostro tavolino cadde solo qualche freccia ormai senza punta. Quando a Messina ci fu il terremoto, sentimmo solo una lieve vibrazione; del resto era una cosa antica, si disse, accaduta nel 1908, e nessuno se ne diede pensiero, figuriamoci noi che continuammo a bere tranquilli il nostro spritz con le gambe accavallate e sguardo perso, mentre dietro ai palazzi – come un sole gigante – sorgevano le colline di Waterloo. Ma quando i galeoni dell’Invincibile Armada cominciarono a sfondare l’asfalto e ad avanzare verso di noi, allora sì che ci rendemmo conto: eravamo perduti, i nostri ideali distrutti. Cos’altro potevamo fare? Ci arrendemmo immediatamente e ci consegnammo al nemico a mani alzate.

Alfonso Lentini

Liquidi silenziati e tossina attiva

La lisciviazione è una tecnica utile per separare i suoni dalle parole. Viene realizzata trattando queste ultime con un opportuno solvente in modo da eliminare ogni suono. Essa viene effettuata con delicati tamponi o con sostanze che rendono silente il soggetto, con gli occhi abbassati e il corpo rilassato. Non è l’unica tecnica utilizzata per influenzare il cervello, un’altra è l’estrazione a pressione. Questa azione richiede l’uso di presse, che vengano usate delicatamente sul soggetto in modo che anche i pensieri pressati gradualmente si convincano di non essere sbagliati e si tacciano. Nel frattempo, il flusso di fluidi e gas all’interno del sistema viene regolato da una valvola, per estrarre i suoni inconsci. Questa tecnologia coinvolge spesso anche altri individui che, ignari, monitorano i livelli di pressione, visualizzano i dati su schermi digitali e regolano automaticamente la pressione in base alle impostazioni predefinite o dettate dal pressatore. Inizialmente, il liquido silenzioso estratto viene utilizzato in pentole di rame, acciaio, alluminio, anche a induzione, per cucinare fritture. Con il passare del tempo, ciò che è stato isolato dal contesto delle parole prende coscienza, rilasciando una potente tossina indirizzata ai respiratori del liquido bollente, non più silente, attivo.

Ornella Mamone Capria

periferia variazioni da qualche parte

la periferia non è un bordo è anche parte del dentro ma anche il fuori non si può dire non ne sia la continuazione naturale perché sfumando da ambo le parti non è più tutto quello di dentro ma non ancora completamente di fuori e si resta ancora parte del dentro finché si trova ancora qualcuno di più fuori fino al limite dove tutti si confondono
da qualche parte

la periferia ha una direzione divergente che allontana verso la rarefazione dove la statistica è meno densa ed è più facile finire nel residuo marginale epsilon di qualche studio dove il grosso è dato e chiaramente si vede dove sono le cose importanti dove concentrare le risorse dove è importante raggiungere l’obiettivo dove epsilon resta
da qualche parte

la periferia se la vedi da fuori non te ne accorgi quasi e si fa attraversare senza quasi resistenza rimanendo contemporaneamente dentro qualcosa e fuori qualcos’altro in equilibrio tra il lato che sfuma fino alla singolarità e l’altro incrementale fino alla densità della confusione nel bordo che è dentro che è fuori e ancora sia dentro che fuori sempre da qualche parte

la periferia non è un luogo soltanto ma anche un momento in cui si nasce e dove non si può non essere tornati almeno una volta anche se si è spostata in un punto imprecisato dove da qualche parte qualcuno continua a nascere e qualcun altro anche a morire pure se nato altrove da un’altra parte come in centro da qualche parte come fuori sempre da qualche parte

da qualche parte se ci capiti con attenzione trovi la periferia che si sposta tra un dentro che preme all’infuori e un fuori che spinge all’indentro senza però che la geografia ne turbi gli abitanti soprattutto quelli che devono restare attaccati ai margini per continuare senza altri bisogni superflui anche perché non c’è posto per loro in un altro posto
dentro o fuori sempre da qualche parte

Giorgio Rafaelli