Il discorso prima

li raggiunge alla fine della cena, compare all’improvviso, scusandosi del ritardo e prendendo la parola, sono molto dispiaciuto per tutto, fa, un tot acuto nel silenzio della tavolata, che fino a pochi minuti prima era molto allegra, sono dispiaciuto e disgustato, perché questo ci riguarda tutti, voi sapete quanto sia stato diverso dagli anni che abbiamo alle spalle questo ultimissimo giro di mesi, sapete anche troppo bene quante sofferenze tutto il giro qui attorno ha significato, sala e tutto, quanti rapporti sono stati bloccati, quante interpretazioni, io stasera vi ho raggiunto senza nessuna intenzione di partecipare alla cena, ma anche senza nessuna voglia di fare prediche, pistolotti, o di dirvi cosa siete stati per me voi tutti, e perché parlo di queste cose al passato, in realtà, in effetti, non so perché mi sono unito a voi adesso, e perché, a pensarci bene, ero unito a voi anche prima, però sapete bene dove questo mio discorso nasconda il punto di dolore, e dov’è che tutti noi siamo responsabili, sapete in che punto della storia, di tutti i rapporti e di tutte le interpretazioni, si trova la cosa che ci brucia, che non ci fa dormire, o che almeno non dà o non penso possa dare pace a qualcuno tra noi, e per corresponsabilità dovrebbe inquietare ciascuno dei presenti e parecchi assenti, e pur sapendolo penso che stiamo e staremo bene ugualmente, continueremo a piluccare con le forchettine, allungheremo le ore, proseguiremo con i rapporti e domani ci ritroveremo dietro i cristalli, sapete benissimo che non cambierà una frazione di virgola, e che mettendo una mano in tasca ciascuno di noi troverà le chiavi e i cicalini delle aperture, e tra un’ora o due salirà nell’auto per tornare a casa, che poi sia necessario prendere tranquillanti o no, girarsi negli incubi tutta la notte o no, stare sereno serena o no, e in tutto questo sapere o capire o perlomeno intuire sta o starebbe il massimo di cui siamo capaci, ma alla fin fine mi sembra che siamo veramente, e dovrei dirlo a voce alta, capaci di tutto, perché abbiamo veramente agito secondo coscienza, con la coscienza dei progetti peggiori, abbiamo causato tanti di quei danni, danni irreversibili, che adesso non solo non possiamo tornare indietro noi, e dobbiamo continuare come se niente fosse conoscendo bene il cosa e il come, ma abbiamo determinato una situazione da cui non potranno tornare indietro i nostri stessi legali, addirittura, e questo non è del tutto certo, anche perché il collegamento che continuiamo a portare avanti, che ciascuno di noi porta avanti nella connessione che anche adesso teniamo aperta, è la complicità che ha portato a tavola quello che avete mangiato, e che io non ho mangiato solo perché fino a mezz’ora fa stavo lavorando, e adesso vi ho raggiunti perché, perché non è chiaro, non ho un motivo preciso, nemmeno rimproverarmi di continuare a parlare, tantomeno parlarvi per tenervi sulle spine o per annoiarvi come sicuramente sta succedendo adesso, mentre mettete mano ai messaggini per distrarvi, o ve ne mandate tra voi con dei punti di domanda, lo capisco anche se armeggiate sotto la tavola, insomma alzo il bicchiere, grazie, meno, insomma, dicevo, alzo il bicchiere per dirvi semplicemente non qualcosa di sintetico, cortese o scortese che sia, né per fare un brindisi complicato ma scioglibile, o per un prosit o qualche formula ancora meno dozzinale, ma per dire esattamente, parola per parola, le parole che vi ho detto fin qui, e che, essendo sufficienti, vedete bene che potevo trasmettervi anche, come sto facendo, via ologramma, senza necessariamente, ossia fisicamente, comparire, come in effetti, capite bene, non potevo fare, per via dell’innesco

Marco Giovenale

Pandafeche

A partire dai primi giorni dell’anno forti venti da ponente spazzano incessantemente la valle del Tronto e, anche nelle giornate più limpide, è raro trovar qualcuno per la strada. I venti iniziano a dar tregua agli abitanti della valle soltanto con l’inizio della primavera, nello stesso periodo fanno la loro comparsa anche i primi turisti. Sono biondi, alti e pieni di curiosità. Assieme a loro, ma più in disparte, salgono dalla costa gli stagionali pronti a rimboccarsi le maniche: bar e cucine, spazzare, lavare, negli alberghi, negli agriturismi e nei casolari. È in questa stagione ricca di arrivi che iniziano a udirsi versi prolungati delle pandafeche. Animali umidi e di natura dispettosa, le pandafeche popolano l’immaginazione della larga valle: ne sono pieni i racconti dei baristi, gli spettacoli dialettali e i volantini turistici. Si dice che vivano in pozzi, fossi e stagni e che di notte si divertano a sedersi sulle pance dei malcapitati che si addormentano supini finché questi – o meglio, i più sfortunati tra loro – rimasti senz’aria passano a miglior vita.
È un vero peccato che, dentro quei pozzi, i tradizionali animali pubblicizzati dalle Pro Loco siano stati sostituiti da omini in tuta blu che ne riproducono il verso. Non è poi molto difficile scorgere questi maestranti al tramonto infilarsi lesti nel loro nascondiglio portando con sé trombette arrangiate, lunghe e sbilenche, perfette per imitare la voce allegra della pandafeca.
Non si capisce se i forestieri fingano di non accorgersi dell’inganno; la sospetta presenza del pericoloso animale sembra comunque divertirli. Non smettono così di prendere con cura tutte le precauzioni che vengono loro raccomandate per tenere lontana la strana bestia: mai dormire a pancia all’aria e ricordarsi di posizionare una scopa di paglia davanti all’uscio, la sera.
La pantomima va avanti per tutta la stagione, con i piccoli dei turisti che tremano al sentire quel suono che sembra quasi una pernacchia, mentre i più grandicelli fingono di esser coraggiosi e ne ridono. Finché non arriva l’autunno e con esso il vento dal mare. I vacanzieri soddisfatti prendono ad andarsene. Alcuni stagionali però rimangono. Assieme agli abitanti del luogo assemblano delle zattere e risalgono il corso del fiume sfruttando il favore del vento. Si dice infatti che le vere pandafeche si siano ritirate nella parte alta della valle, dove il fiume si fa tortuoso e la roccia si riempie di cavità. Li si vede allontanarsi nella nebbia in quelle imbarcazioni di fortuna, alcuni con le trombette al seguito. Ogni tanto da lì proviene qualche allegro richiamo. Poi viene l’inverno.

Giovanni Blandino

Kecilja

La sera prima, la guida che il villaggio turistico aveva assegnato al gruppo di Kecilja aveva proposto un’escursione verso una spiaggia famosa per la bellezza dei suoi coralli. Kecilja aveva dato la propria adesione.
Il mattino dopo era scesa nella sabbia bruciata del piazzale, fuori dalle mura del villaggio, verso la gracile ombra verde scuro di alcune palme, ed era salita sul vecchio pullman bianco dove la guida e l’autista aspettavano. Dopo poco, il pullman aveva cominciato a riempirsi di arabi vestiti di bianco, come liberati o (qual è la differenza, dato che comunque non dipende da noi?) catturati dalle grida e dalle preghiere del vero e proprio paese.
Arabi in un pullman accecato dal sole come cicale bianche intorno a Kecilja. I geni intrappolati dentro vecchie lampade di latta devono essere simili a loro. Cicalare come fragili rottami in attesa che qualcuno sfreghi la lampada.
Kecilja aspettava i suoi amici o almeno qualcuno dei clienti del villaggio, ma nessuno oltre lei era uscito dalle mura. La sera prima aveva dato il proprio nome per prima, per essere sicura di poter vedere i coralli. Era certa che tutti i clienti del villaggio volessero vederli, e quasi temeva l’affollamento subacqueo, un accumulo di pinne, costumi, boccagli colorati che le avrebbe impedito di vedere coralli vasti e luminosi come nebulose stellari contro la tenebra del mar Rosso. Avrebbe dovuto farsi spazio in un mare talmente sovrappopolato di corpi che a malapena ci troveresti l’acqua, avrebbe dovuto fare a pizzicotti con le signore più combattive, come al buffet del villaggio, e infine si sarebbe trovata i coralli davanti come all’improvviso, sbucati da un volgare groviglio di gomiti, costole, natiche, troppo vicini per capirne la bellezza, puzzolenti forse di pesce, grondanti dell’acqua rubata dai corpi umani. Coralli ansimanti come vecchie tubature sgangherate.
Si mise a fischiettare, come tutte le volte che qualcosa la rendeva triste o le faceva paura. Fischiettava come un vecchio muratore, mentre gli arabi continuavano uno dopo l’altro a salire sul pullman mostrando di non notarla, quasi loro e Kecilja fossero parte di una qualche insipida fiabetta fantascientifica di universi paralleli, coesistenti, simultanei, reciprocamente ignoti.
Alle dieci, ora prevista per la partenza, Kecilja fu definitivamente certa che nessuno del villaggio sarebbe venuto. Gli arabi bianchi continuavano a cicalare. La guida e l’autista erano quasi sdraiati nella polvere bruciata del vecchio autobus bianco di latta incantata. Kecilja aveva paura ma non fischiava più.
Voleva vedere i coralli. Perché certe parole sembrano davvero battezzare le cose, mentre altre le nominano soltanto?
Voleva vedere i coralli perché coralli era il loro nome e non è possibile essere tanto vicini a qualcosa che si chiama corallo e non voler vederla a tutti i costi.
Altri arabi bianchi si stavano avvicinando al pullman, ma non salivano. Ormai erano le dieci e un quarto. Kecilja ricordò che il giorno prima, visitando un’oasi, la guida per dire all’autista di partire aveva gridato qualcosa. Si alzò e si fece spazio tra gli arabi bianchi che non la guardavano. Kecilja ricordò il trucco di una vecchia spia russa impazzita che aveva letto in un romanzo-spazzatura: se guardi gli altri per primo senza che loro ti guardino, sarai invisibile. Arrivò fino a dove erano sdraiati la guida e l’autista superando la folla impalpabile degli arabi.
«Jalla! Jalla!»
Al grido della vecchia donna, tutti gli arabi bianchi sciamarono via dal pullman. Kecilja li sentiva frusciare contro la schiena come una maledizione che schiuma via dalla nostra casa. La guida si strappò come da una ragnatela di hashish e diede un calcio alla porta del pullman di latta per chiuderla. L’autista mise in moto, un rumore come di carica di un vecchio giocattolo a molla. Trrric trrric trrric.
Adesso l’unico passeggero del pullman era la donna. Andavano nel deserto.
Erano già passati davanti alla spiaggia il giorno prima, ma venivano dall’oasi e Kecilja non ricordava se la strada fosse la stessa, non ricordava tutto quel deserto e nessuno era uscito dal villaggio per venire con lei.
«My friends… Beach…»
«Ok. Ok.»
Adesso, senza gli arabi bianchi, la latta del pullman tremava contro la sabbia sollevata dal deserto con un suono come di arpa scassata.
La spiaggia era ancora lì. Appena spento il motore, la guida e l’autista tornarono a sdraiarsi con una mossa disossata e quasi liquida.
«My friends… With peace… with peace: I am old…»
«Ok. Ok. Go. Go.»
«Go? With peace… with–»
«Yes, yes. You go. We wait. Go. The sea. You go.»
«No, no. With you! We go!»
With youuuuuuu… sentendosi improvvisamente vecchissima, intrappolata in una carne che solo la visione dei coralli avrebbe finalmente potuto salvare.
Camminavano verso l’acqua, Kecilja con in mano solo un asciugamano, la guida con una sacca di tela marrone bruciata dalla sabbia. Da uno strappo sbucava il gambo nero e arancione di un boccaglio e si indovinava il lucore maligno della maschera subacquea, ed era come se la guida avesse arrotolato nella sacca un qualche spirito, un gigantesco djinn subacqueo che poi avrebbe liberato sul bagnasciuga per trascinare tutta l’Arabia in fondo all’oceano.
Si liberarono dei vestiti ed entrarono in acqua. La guida indossava delle pinne. Dato che le mani di Kecilja tremavano, la guida le spostò con cura i capelli dalla fronte, poi le mise la maschera. Kecilja aprì la bocca e si sistemò il boccaglio tra i denti. La guida le prese una mano e la trascinò nuotando verso il largo.
Pinnando la guida a volte stringeva un po’ più forte la mano di Kecilja, poi le indicava altre creature che tremolavano sempre nuove sotto di loro come coriandoli di una città fantasma.
«Ho passato mezz’ora in paradiso», aveva raccontato la sera Kecilja al telefono al marito lontano.
«Amore, qui sta succedendo una cosa», aveva risposto lui.

Angelo Angera

Kennedy – The assassination


( a true story )

Hyannis Port, 18 aprile 1961.

Caro papà,
grazie per aver mandato fino a New York gli Smiths, Shrivers e Charlie Bartlett.
Durante la campagna elettorale è stato meraviglioso poter viaggiare con Caroline, ma viaggiarci ora che non abbiamo più “cause” da portare avanti è semplicemente superlativo. Per tutto il volo dovemmo tenerci le cinture allacciate, ma Jean si è subito ritirata in camera da letto. Per paura, dice lei. La qual cosa non ci ha impedito di fare un’ottima cena e di fare tanti brindisi in tuo onore, perché ti consideriamo un capo della Nuova Frontiera con un cuore grande così.
Affettuosamente,
Eunice

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13 luglio 1961, Beverly Hills.

Carissimi papà e mamma,
finalmente è arrivata. Pesa quasi tre chili, ha i capelli rossi e le dita più lunghe che abbia mai viste. Speriamo che abbia anche la testa di suo nonno! È nata il giorno 2, domenica, ma l’abbiamo battezzata solo sabato scorso perché Bobby era fuori quel fine settimana, e il padrino era lui. Oggi ho parlato con Jack e mi ha chiesto di fare gli onori di casa per la fine del mese perché Jackie non può essere presente. Dovrebbe essere una cosa divertente. Poi parto per Capo Cod, e prenderò l’aereo il 7 agosto, così sarò da te a Nizza l’8.
Affettuosità e baci,
Patricia

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24 gennaio 1961, Palm Beach.

Alla Sig.ra Jacqueline Kennedy
Casa Bianca, Washington, D.C.
Cara Jackie,
ti accludo alcuni suggerimenti per la dieta di Jack. Alcune delle idee, le più costruttive, le ho prese dal libro del dottor Travel, di cui ti invio copie nel caso che tu volessi lasciarne una nell’altra casa. Ho scoperto che alcune cose sono sulla lista delle proibizioni.
Affettuosamente,
Nonna

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23 febbraio 1961, dalla Casa Bianca

Cara Nonna,
siamo andati alla Casa Bianca dopo aver cenato in ufficio dal babbo. Ci siamo divertiti molto. Avremmo voluto che tu fossi con noi. Quante stanze ci sono!
Affettuosamente,
Kathleen, Joe, Bobby, David, Michael, Courtney

Cara mamma,
se hai intenzione di metterti in contatto con capi di Stato sarebbe opportuno che tu interpellassi me o il Dipartimento di Stato prima di procedere, perché ciò potrebbe provocare complicazioni internazionali.
Affettuosamente,
Jack

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Caro Jack,
ti sono grata per avermi messa sull’avviso a proposito dei capi di Stato perché ero sul punto di scrivere a Castro.
Affettuosamente,
Mamma

Signor Kennedy
Ha telefonato Trish Baldridge per comunicare quanto segue: Jackie non vede l’ora che lei vada a trovare i nipotini alla Casa Bianca. Luogo dell’incontro: il laghetto delle anatre. I bambini avranno già fatto il sonnellino, e ci sarà anche Caroline(che la mamma va a prendere a Glen Ora). Il presidente JFK sarà lieto di averla a pranzo. È confermata anche la cena: ore 7,80, con Robert e il presidente Jack. Jackie chiede anche di potersi tenere in disparte per essere presente alla cena.

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Hyannis Port, 23 giugno.

Questo fine settimana sono arrivati qui per le vacanze Jack e Jackie e Jean coi suoi bambini. Venerdì e sabato sera sono stata a cena da Jackie, ma Jack aveva l’aria stanca ed è andato a letto presto. Sabato ha giocato a golf con Jean poi, quando sono arrivata io, ci siamo messi tutti a giocare a pallamano. C’era anche Caroline e Charlie (il cane) che correva dietro alla palla di Jack, il quale gli ha fatto poi una sfuriata con quanto fiato aveva in corpo.

Hyannis Port, 24 giugno.

Dopo cena abbiamo telefonato a papà. Come al solito ha detto di non preoccuparci che ormai era cosa fatta, e che tutti diventavano nervosi all’avvicinarsi della fine.

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Hyannis Port, 25 giugno.

Come madre di Jack, sono sicura che Jack vincerà perché lo dice suo padre, e in tutti questi anni si è sempre visto che tutte le sue previsioni e i suoi giudizi sonostati confermati dagli avvenimenti. Così ne sono convinta anch’io. Dice anche, e lo ha sempre detto fin dal principio, che se Jack ottiene la designazione può battere Nixon.

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Antonio Syxty

curva a gomito

Con l’arrivo dell’estate il tempo del malessere di Marta curvava a sinistra, l’onda calda appannava i ricordi, smussava i bordi, mitigava i colori, ottusi dalla caligine. La zona industriale si era ingoiata i campi all’improvviso, nel battito di ciglio di una stagione, unghie affilate di lamiera e barbagli di pannelli solari ferivano gli occhi, persi nella regolarità delle nuove colture di nocciolo. Di campi di girasoli ed erba medica non era rimasta che l’ombra sbiadita, così del sorgo e del mais. L’asfalto era lucido e bollente, Marta non ne poteva più di guidare. Dopo la sosta al supermercato si sarebbe rinchiusa in casa, le finestre aperte, a contare gli insetti impazziti attirati dalla lampadina della cucina. La casa, chiusa per tutto l’inverno, sarebbe stata fredda, ma non ci pensava ad accendere il camino, non oggi, non il primo giorno di vacanza. Aveva bisogno di dormire. Sperava solo che le bambine crollassero presto per prendersi un po’ di tempo per lei. Uscire di casa e spegnersi sotto il ciliegio a fumare e a guardare l’acqua buia e melmosa del lago in lontananza, oltre la staccionata.
«Zitte, ora.»
«No, no!»
«Zitte e basta.»
Ingranò la terza, svoltò a sinistra ed entrò nel parcheggio della zona industriale. Flavia e Anna continuavano a fare quello che Marta chiamava le voci. «Non ci voglio andare al supermercato» piagnucolava Anna, picchiando i pugni sul sedile. Sua sorella, di due anni più grande di lei, per farla star zitta, le faceva il solletico.
«La vedi, mamma? Le dici qualcosa?» lamentò Anna.
«Sta guidando, scimunita, come fa a vederci, secondo te.»
«Vi vedo, vi vedo. Finitela una buona volta.»
L’escursione termica tra l’abitacolo climatizzato e l’esterno le bloccò il respiro. Una volta smontata, una fitta acuta costrinse Marta ad appoggiarsi al cofano, ad aspettare, ad abituarsi al dolore.
«Stai male?» disse piano Flavia, mentre aiutava Anna a scendere e le stringeva forte la mano.
«Ahia! Non così, stupida!»
«Ora passa» la rassicurò Marta. «Anna, finiscila. Pure tu, mi hai capito?»
«Ma io non ho fatto niente» provò a dire, mentre sua madre la inceneriva con lo sguardo.
Oscar, appena uscito dal supermercato, spinse il carrello fino alla macchina. Da quando era morto Corrado, era diventato difficile fare qualsiasi cosa. Era faticoso persino pensare. Arrivato ai settanta, dopo che anche Giulia se ne era andata, si sentiva finito, aspettava solo di morire. I genitori non dovrebbero mai seppellire i figli, ripeteva ogni giorno. Non è così che funziona, non è così, diceva tirando giù un carico a briscola davanti alla tovaglia macchiata del bar in piazza.
«Tutto bene?» chiese a Marta, ancora ripiegata dal dolore, mentre apriva il portabagagli.
Marta teneva i palmi sul cofano, la testa bassa. La alzò quel tanto per vederlo in faccia, scostando di poco la cortina di capelli che le impediva la vista.
«Sì, grazie. Non si preoccupi, è già passato.»
«Sai perché mi preoccupo, signora?»
Marta scosse la testa.
«Se lo fanno con me, mi fa felice.»
Marta provò a sorridere, ma proprio non ci riusciva.
Si tirò su a fatica. Senza salutare, si diresse spedita verso l’entrata, trascinandosi dietro le bambine.
«Signora» la richiamò Oscar.
Marta si voltò piano, cercando di mantenersi salda sulle gambe. «Cosa c’è ancora?»
«Puoi far scendere Corrado?»
«Cosa?»
«Mio figlio. Non lo vedi, signora, a Corrado?
Marta scosse la testa, si passò una mano sulla fronte, cercando di scacciare il malessere di un’altra seccatura.
Ancora. E ancora. Non finisce mai, pensò mentre raggiungeva la macchina.
«È fatto così. Gioca. Ha visto la portiera aperta e si è infilato.»
«Infilato dove?»
«Eccolo lì, ve’? Sul sedile del passeggero. Abbi pazienza, signora, ha solo quindici anni, è un’età difficile. Ci dimentichiamo di quello che abbiamo combinato noi. Se ne è dimenticata pure lei che è tanto giovane?»
«Senta, io non vedo nessuno. E poi…»
«E poi ci si pente, signora. Non si torna indietro, non è così?»
Marta controvoglia fece scattare l’antifurto.
«Aspettatemi lì, davanti ai carrelli» disse alle figlie indicando l’entrata del supermercato.
Mentre si avvicinava alla macchina, il clacson prese a suonare.
«Che ti avevo detto, signora? Bisogna avere pazienza con i ragazzini.»
«Chi è Corrado?» disse Anna alzando la voce, più a se stessa che a qualcuno in particolare.
«È il mio figliolo, è un bravo ragazzo, sai?»
Marta cercò di allungare il passo. Arrivata alla macchina aprì la portiera. Non c’era nessuno.
«Visto? Che le avevo detto?»
«Ma era lì, signora. Io l’ho visto entrare. Hai sentito il clacson? Mica me lo so’ inventato io, no?»
«Sarà stato un contatto.»
Oscar scosse la testa, finì di caricare le buste della spesa in macchina e sbatté con forza la portiera del portabagagli.
«Voi giovani non avete pazienza» disse seccato. Poi salì in macchina, mise in moto e uscì dal parcheggio sgommando.
Deficiente, pensò Marta stringendosi il ventre per il dolore. Mario stavolta gliele aveva suonate per bene, a lei e pure alle bambine. Per questo aveva infilato due stracci in valigia, caricato le figlie in macchina e se ne era andata sbattendo la porta.
All’improvviso, dall’altra parte della strada, erano partiti gli irrigatori. Marta si schermò gli occhi e si fermò a guardare i riflessi e le diffrazioni dei getti d’acqua traslucidi di tramonto. E con l’acqua arrivò immediato l’odore di terra bagnata, mentre gli ultimi raggi di sole leccavano i carrelli fuori dal supermercato. Inserì una moneta, ne staccò uno dalla fila ed entrò.

Cristina Pasqua

di sfortuna

si spostavano in grandi macchine navali con enormi corpi metallici, grigiastri.
ammaccavano, intasavano, orchestravano rumori molesti. dentro i cortili, negli spazi vuoti tra gli alberi, sui pavimenti.
dirottati, precipitavano.
lanciatevi, gridava il mistico, lanciatevi, lui
lanciarsi dove?, se non controllavano più le mani, i pedali?
e allora lanciatele, e seguitele sul fondo!
senza lasciarselo ripetere, all’erta: partivano e inciampavano, ingolfavano e ripartivano e lanciavano, saltavano.
giù.
atterravano. nei dirupi, nei fossati, nei mercati, all’idroscalo, tra i marmittoni invecchiati.

Mariano Mastuccino

saggio su joseph beuys

è noto che gli animali di joseph beuys incarnano l’innocenza dello stato naturale e io, in questo 24 gennaio 1986, lo vedo arrivare col suo cappello in testa accompagnato da un cerbiatto: beuys è morto ieri, chiede di varcare la soglia io, che sono morto ieri e chiedo di varcare la soglia, lo riconosco senza esitazione (quante volte l’ho incontrato per le strade di foggia quando ci veniva per qualche suo progetto) e lo saluto e mi guarda e mi riconosce e avvicina una mano al muso del cerbiatto che gliela lecca e capisco che è un invito a fare altrettanto: c’è una specie di garitta con un’antenna radio in cima e c’è una linea di gesso per terra e forse dovremo chiedere lì di passare, forse è quella la soglia, forse nella garitta comunicano con l’altra parte per ricevere un sì o un no mano a mano che ci presentiamo per chiedere di passare, ma lo facciamo perché è forse così che dobbiamo fare (chiedere di varcare la soglia senza sapere che cosa c’è dall’altra parte e perché bisogna farlo) e io, mentre comincia a nevicare, ritrovo antonio devicienti che conosco da quando veniva a vedere quello che facevo a foggia e gli raccontavo dell’innocenza degli animali e degli aerei che avevo pilotato (quelli non erano innocenti) e mi fa piacere che anche lui si lasci leccare la mano dal cerbiatto che mi accompagna fino a questo varco dove la neve ha il colore della cenere e il mio bastone traccia segni per terra e nella neve che ha ricoperto anche la linea di gesso e a dire la verità non so più verso dove si passa ma si deve andare ed è un desiderio o un’illusione che spinge (scheiße!) così in vita come in morte perché sappiamo di essere morti (nicht wahr, antonio?) e nella neve che cade la fila di chi chiede di passare si allunga e (caro joseph) tutta la nostra non-arte, tutto il nostro discutere, tutto il nostro andarcene a piedi nudi attraverso la campagna del gargano diventa qui un indugiare davanti alla garitta da cui nessuno si affaccia a chiederci qualcosa o a farci un cenno qualunque e ti vedo chiudere il bavero del cappotto di feltro, appoggiarti al bastone ricurvo, dirigere il tuo viso ossuto verso i volti di noialtri sui quali la neve, posandosi, scrive.

Antonio Devicienti

Stanza stanza

Si deve ripartire sempre dalla stanza accanto a quella dove è rimasta accesa la ventola o il riscaldamento. Qualcosa. Un motore di condizionatore piccolo, che però fa non poco baccano, evidentemente nascosto in qualche muro, e di cui non si vedono le fessure, né ora gli interruttori di accensione. Uno si sbaglia sempre con altri bottoni, che invece sono quelli della luce, ma comunque non c’è luce, o ce n’è poca.

Il corridoio prima di arrivare alla stanza, o che separa le due stanze quasi contigue o vicine, è invece proprio francamente al buio.

La stanza accanto andrebbe in corsivo, perché se c’è di mezzo un corridoio non è accanto. Comunque è la stanza da cui si parte, è indefinita, sembra una specie di semplice proiezione di idea di stanza, e se ne esce già. Si percorre allora quel tratto di corridoio, che ogni volta ha lunghezza diversa, e si fa ingresso nella penombra della stanza del rumore, netto ma non violento.

La porta non ha pomello o maniglia, ma una specie di buco per cui ci si domanda come ha fatto quella a essere una camera d’albergo, o – se non era tale – anche qualsiasi altra cosa.

Entrando si ha l’impressione di una luce che venga da sinistra, come da un finestrone largo con veneziane abbassate. C’è un angolo, di fronte alla porta, uno spigolo di novanta gradi. L’angolo di una stanza interna all’appartamento. Dentro questo angolo, in un modo che è parte visibile e parte no, è morto un uomo con la testa sfondata. Non è chiaro se sia ancora lì oppure no, se la coscienza del fatto abbia a che vedere con una visibilità del corpo, del viso delicatamente piegato con la calotta sfondata, oppure no, se si tratti di un ricordo–

Di fatto la preoccupazione, tutte le volte che si apre uscio per affacciarsi all’interno della stanza del rumore e si sta per aprire una seconda porta che dà, di fronte alla prima, sulla stanza ancora interna, coincide con la preoccupazione, un blando timore, della presenza del morto, del corpo, della morte dunque, da un lato, e con il pensiero per il calore che il termoregolatore genera, il getto di aria che non si sa individuare e che, se caldo (e non è chiaro se lo sia), non aiuta il corpo a preservarsi, anzi al contrario.

C’è sempre timore di qualche miasma. Che però non si avverte, ma forse sì. Si sospetta. Poi bisogna partire, e si cerca un bagno per fare pipì prima di mettersi in viaggio con gli altri, forse costretti. Non si sa se prigionieri. Poi invece no, e ci sono scale che portano a quel corridoio buio di tutto, o che da quel corridoio portano all’esterno, dove è giorno.

Notevole come alcuni edifici sappiano creare il buio e spezzare e rispezzare la luce da qualsiasi parte questa venga e con qualsiasi angolazione.

Marco Giovenale

Altro

Altro fai, mentre stai facendo quello che stai facendo. Inizialmente non volevi crederlo. Poi te ne sei convinto. Fai sempre altro e questo altro non puoi nominarlo. C’è stato un tempo in cui credevi che l’altro fosse qualcosa di più importante di quello che stavi apparentemente facendo. Che l’altro fosse la cosa più importante per te, verso cui tutte le tue energie si volgevano mentre ti occupavi delle cose quotidiane e insignificanti della tua vita.
Poi hai capito che non era vero. Nessuna scala di valori tra quello che facevi e quello che stavi facendo mentre lo facevi. Quello che stavi facendo mentre facevi la cosa che potevi nominare era solo più importante in quanto ignoto. Così anche mentre stavi facendo quella che era secondo te l’attività più significante della tua vita, stavi in realtà facendo altro, anche in quel caso. E questo altro era sempre qualcosa di innominabile, di insignificante.
Ti sei poi reso conto che era inutile andare a caccia della cosa che facevi mentre stavi facendo le altre cose, perché quella cosa spariva se riuscivi – o se ti pareva di riuscire – a individuarla. Era importante che la cosa esistesse nell’innominabile, nell’indefinizione. E per il solo fatto di esistere in questa modalità, bagnava le varie cose insignificanti che facevi rendendole meno insignificanti.
È stato in quel momento che la cosa che reggeva le cose è definitivamente scomparsa e tu, perso nella solitudine di tutte le cose, sei diventato un oggetto privo di volontà.

Gunther Maria Carrasco

Scatologia d’una moltitudine ctonia

Plurima e indistinta, fortuita, generata in un grembo elettrificato di aggregazioni lipidiche e amminoacidi per estendermi progressiva e variamente proliferare, non udita e inapparente. Ero e sono moltitudine subacquea, moltitudine strisciante, moltitudine ctonia. Moltitudine natante in succhi che sono nutrimento e albergo. Moltitudine metamorfica che trasmuta in altre moltitudini e poi oltre, che prospera invisibile in silenzio.
Conforme all’innato mio capriccio, fagocito e digerisco, estrudo il mondo. Codifico l’organico, edifico l’inorganico, modifico la luce. E ritorno sempre, incurante della stasi che periodica s’impone di ghiaccio: un fuggevole istante nell’intorpidita mia quiescenza.
Io ritorno sempre, anche dopo il gelo in superficie.
Ritorno a originare il respiro. A modellare l’alito proveniente da sotterra. A digerire la luce celeste per espellerla tangibile e concreta. A comporre e decomporre.
Io sono origine, passaggio e pneuma. Io genero incessante nuova materia da disfare.
E nonostante tutto sopravvivo.

Livio Santoro