didascalia per l’innocenzo x di francis bacon

come ti chiami bambino? innocenzo. che ci fai qui? mi decompongo. ti pare bello? sì. di chi è la colpa? dell’arte degenerata. sarai mica nazistello? non mi piace questa domanda. non ti piace l’arte? raffaello, tiziano, cellini era immorale. tu sei morale? entro limiti umani. cos’è la moralità? uno spago molto ingarbugliato. tu ne tieni il bandolo? mi è stato detto. da chi? da dio. chi è dio? l’essere perfettissimo che ha fatto tutto questo. vuoi dire questo quadro? no. e chi ha fatto questo quadro? un bastardo rottinculo che ce l’ha su con l’ordine costituito. tu sei l’ordine costituito? quasi interamente. è per questo che ti decomponi? è per questo. perché, essendo costituito, non puoi che disfarti? credo sia per questo. ciò ti fa felice? vorrei riuccidere il pittore. non ti sembra di esagerare? sì. e ti pare bello? nemmeno è bello stare qui a decompormi in questo modo. ma non l’hai voluto tu? sì. con il tuo comportamento? sì. e allora il pittore ha risposto alla committenza? in maniera indiretta, ma sì. dunque sei soddisfatto? no. perché? non amo il rosso. solo per questo? solo per questo.

Marco Giovenale

giardino

La camera da letto affaccia sul cortiletto interno alla palazzina: affaccia su un buco, con altre finestre in fila, incolonnate, e una decina di piante sempreverdi che punteggiano ordinatamente il pavimento. Nel condominio, per quei dieci vasi, si litiga. Gli inquilini del pianterreno che vorrebbero eliminarli, gli altri contrari, perché sono piante grandi e rigogliose, e quando c’è un matrimonio servono a ornare il portone, l’ingresso su strada. Se ne occupa il portiere: che le cura ogni giorno, le annaffia, ogni tanto ricopre i vasi con carta crespa bianca e li dispone lungo le scale, accanto alle porte di chi va a sposarsi. Il portiere, sembrerebbe, nella vita non sa fare altro. Neanche dare lo straccio – le scale le lava la moglie – o sistemare la posta: solo le piante della chiostrina, verdi e cupe come sono, brutte, in fondo. Quelle piante le presta, a volte, quando a sposarsi è una ragazza dei palazzi vicini: e allora lo si vede per ore, entrare e prendere tra le mani un vaso, lentamente, portarlo via, uno dopo l’altro finché il cortiletto non è svuotato. Accade di solito la mattina presto. Poi, il pomeriggio, è il gioco opposto – lo scricchiolio della serratura, lo schiudersi della porta. Il rumore sordo delle foglie. I vasi appoggiati sulle mattonelle. La trama dei passi, indiscreta, pesante.

Fiammetta Cirilli

L’eco di un nome

Livida e livorosa la lava che dall’alveolato clivo volge violenta e fluviale a valle; belva volitiva che dal calvo vulcano dilava i villaggi e i velluti coltivi, e la selva. Li avvolge, livellandoli in miserevole tavola.
Elevato calvario di velleitari volteggi tra gli avviliti volatili. Nelle nuvole v’è fievole sollievo, non pluviali ma polverose nuvole. Nuvole dell’oblivione.

Livio Santoro

Decibel

Alcune decine di decibel si sottrassero al mondo, lasciandosi dietro una scia di sottilissimi rumori bianchi: una polifonica altalena che saltava da una coclea all’altra.
La sala d’aspetto – costretta a un tempo imperfettivo, eterno – si inclinava impercettibilmente verso sinistra, fino ad assumere una disposizione verticale.
Scivolai quindi verso una capsula magnetica, il cui compito era quello di rendere visibili i condotti uditivi, cioè le case del bianco, lo stesso rumore di cui non capisco le cause e per il quale la medicina non è ancora riuscita a trovare una cura. La sfida del macchinario era persa ancora prima di essere affrontata. Il referto rilasciato a mio padre diceva che non avevo niente, ed era quello il problema.

Niccolò Brunelli

Incidente

Sono nel letto da quasi due ore, non riesco a dormire. Mi alzo, prendo un potente sonnifero, poi esco sul terrazzo per rilassarmi all’aria fresca notturna. Guardando in strada assisto a uno spaventoso incidente: una macchina fuori controllo sbanda e distrugge tre cassonetti dell’immondizia prima di fermarsi ribaltata. Vorrei intervenire ma, stordito dal sonnifero, faccio appena in tempo a tornare a letto.
La mattina successiva ripenso all’incidente, al rumore di freni prima dello schianto, alla visione della ferraglia capovolta, al lamento che m’era parso di udire da lontano. Con ansia torno sul terrazzo, ma in strada tutto è in ordine. Solo un sogno? Il tempo di tirare un sospiro di sollievo e una fragorosa frenata richiama la mia attenzione. Di nuovo, sotto i miei occhi, l’incidente della notte precedente: gli stessi cassonetti distrutti, la stessa macchina cappottata, lo stesso lamento. Unica differenza, la luce del giorno. L’istinto mi porta a uscire di casa per prestare il primo soccorso, mi giro d’impulso per guadagnare la porta e cado giù dal letto.

Luigi Di Cicco

altrimenti

Nel momento in cui libera l’ultimo scaffale, prova un senso acuto di disagio. Le poche Barbie le ha vendute mesi fa, e così i giocattoli, le cose che potevano far gola a qualcuno. Per settimane ha combattuto per rendere un po’ di merce ai fornitori. Molta roba l’ha svenduta, altra, tanta, l’ha regalata o buttata. Dagli scatoloni in fondo al magazzino, via via che svuota, vengono fuori articoli vecchissimi. Bambole in celluloide con il cranio sfondo, seggiole in plastica colorata, automobiline in latta. Le fanno senso, ma più pietà. E pietà a trovarsi tra quella miseria, nel negozio deserto. Chiama certe suore, vengono a prendersi tutto. La ringraziano, dicono che pregheranno per lei. Sono in due, sembrano allegre. Guida la macchina la più giovane: una di su, con il viso spigoloso e la peluria sopra il labbro. La donna è cordiale. Le ringrazia a sua volta. Le aiuta a caricare i sacchi, aspetta che si allontanino. Poi torna dentro. Del negozio non c’è più niente – anche il telefono staccato, e volere, detestare ciò che sta facendo.

Fiammetta Cirilli

Fugare i dubbi

Ieri ho incrociato un’ombra in corridoio. Ero distratto quindi non ho risposto, percependo appena un sommesso “salve”.
Più tardi, nello studio, ci ho ripensato e allora la mia esistenza appartata ha avvertito un primo lieve incrinarsi.
Sono solo? Scorgo altre presenze o le suppongo solamente?
Oggi niente latte in frigo, e la caldaia era già spenta quando ero sicuro di averla accesa; a volte sembra che la casa diventi di altri, solo perché si riempie del mio immaginare e ogni angolo comincia a sfuggirmi e sembrare distante, mappa intricata, senza un perché significante, come opera di un architetto invadente e fin troppo disinvolto che abbia travisato i miei desideri, mortificato i progetti, smorzato le varianti, introdotto un’anima estranea che sì, saluterà pure, ma cova un rancore sordo, vibrazione persistente nel chiaroscuro del dormiveglia.
Il dubbio è stato fugato rientrando a casa: ho trovato la serratura cambiata.

Franco Battaglia

Niente

Si risveglia di soprassalto, nel cuore della notte. Lo assale il freddo, la sensazione insolita della gamba sinistra al di fuori delle coperte. Gli fa orrore, così nudo e alla mercé della notte, il suo arto indifeso.
Il rimasuglio di un incubo lo getta nei ricordi, le notti passate nello stesso letto a temere l’arrivo di qualche mostro nascosto sotto il letto. Forse ha aspettato tutto questo tempo per gettarsi su di lui, lasciandogli pensare di essere salvo per poi colpire nel momento più inatteso.
Passano i secondi e i brividi aumentano. Quel freddo che era di paura si tramuta in un gelo esistenziale. Eccolo, il vero significato della vita, giunto come una rivelazione nel nero della notte: l’attesa immobile della fine, persi nell’illusione di combinare qualcosa. Potrebbe morire, ora, e nessuno se ne accorgerebbe.
Passano altri secondi, il freddo diventa insopportabile. La mente è stanca e il corpo chiede tregua: lentamente, con energie che non pensava di trovare, sposta la gamba sotto le coperte. Era una soluzione così semplice che non ci aveva pensato, ci è voluto poco. Ora è di nuovo al sicuro. Pian piano si riaddormenta, cullato dal tepore ritrovato. Al risveglio, domani, un domani che è già oggi, proverà solo la sensazione, senza il ricordo, della vera miseria: aspettarsi qualcosa, un evento o un significato, e invece niente.

Stefano Ficagna

Fons virtvtis

La fontana scoppia di salute. Piscia verso l’alto, dopo Attila dirupa ai faraglioni, contro. Serve un cerchio di contenzione per fermare, per il getto, corrode gutta cavat ‘gni hosa. Scendono tutti molecolari gli asettici, con la bipenne del vaticano. Staccano la luce se non paghi. Anche se paghi. Te la fanno vedere loro, senza luce.

La fontana si sbarazza di tutto. Butta giù le pareti, entra nel letto. Mangia il somaro e la vacca nella stalla. Entra nella scrittura della favola. Sarà ricordata dai bambini, a tuo danno.

Marco Giovenale

L’omino di carta

L’omino di carta si trova in una terra desolata e vuole giocare con l’acqua, ma non può, perché si bagnerebbe. Allora la ragazza apre la valigia e tira fuori un bel canotto di gomma. Lo gonfia e ci vanno su, sopra una poccia un po’ sporca, ma niente male.
Così l’omino sente che l’acqua si muove ed è felice di questa esperienza. Le scoperte mettono fame e la ragazza gli può offrire solo due visciole, due caldarroste e due bombe co’ a’ crema. L’omino la guarda di traverso perché la ciambella del canotto gli piace, morbida sulla schiena e poi l’acqua da così vicino non l’ha mai vista e il cielo così lontano l’ha sempre desiderato. E il vento inizia ad alzarlo così com’è: una foglia gialla di un albero che scrocchia in questi cieli e casca con questi gialli. “Oh, oh, tienimi”, le fa.
Mille pensieri le passano per la testa e una sola cosa sa fare: prendergli la mano, ma per un istante riesce solo a sfiorarla e l’omino vola in alto, alto, sempre più in alto.

Antonia Anania e Carlo Catacchio